mario bertola: diario e memorie

le memorie di mario e della sua lotta contro l' acna e per una valle bormida viva

venerdì, settembre 23, 2005

una voce dalla strada:pagine di un diario - prefazione


Questo che segue non è un romanzo né una favola, così pure io che scrivo non sono uno scrittore ma un semplice cittadino della Valle Bormida, come mille altri, che nato in un paese a pochi km dall'ACNA di Cengio, ho vissuto la mia vita tra lavoro, famiglia e proteste.
E' una semplice pagina di diario che racchiude una storia personale, una testimonianza di quelle che non si possono raccontare ai nipoti perché non la capirebbero ancora e neanche ai figli perché rischierei di annoiarli.
Ho intitolato questo scritto “una voce dalla strada” perché è una voce qualunque, una voce che viene dal basso, una voce che può uscire dalla bocca di un cinquantenne qualunque che incontri per strada in Valle Bormida.
"Una voce dalla strada" perché qui racconto la prima volta che sono sceso in strada cercando di far sentire la mia voce (aprile 1957).
Contrariamente a tutto il resto del mondo che per protestare scende in piazza, noi, in Valle Bormida, per protestare, da oltre cento anni, scendiamo sulle strade.
Forse perché le nostre piazze sono troppo piccole o forse perché sono troppo lontane da Roma.

giovedì, settembre 22, 2005

cap. 1 una voce dalla strada

Mi chiamo MARIO BERTOLA e sono un semplice abitante della valle BORMIDA.
Sono nato e vissuto in un piccolo paese distante appena 18 Km dall'ACNA di Cengio.
I ricordi della mia infanzia incominciano dai primi anni del dopo guerra. La mia era una famiglia di contadini, la mia casa situata sopra un altipiano a metà collina, davanti ad essa una grande aia in cui giocavo con i miei due fratelli più grandi tra galline, tacchini e conigli. In un angolo un grosso albero di pero, alto, superbo, maestoso.
Quella pianta mi ritorna in mente ogni volta che penso alla mia infanzia e per me era una compagna di giochi: era come un amico con cui confidarmi nei momenti di sconforto, quando tutti sembravano avercela con me. Mi rifugiavo sotto i suoi rami a riflettere e parlavo astrattamente con lei.
Poco più in fondo al cortile c'era la stalla, con una coppia di buoi da lavoro che il nonno curava come fossero persone umane.
Vicino alla stalla c'era anche un ovile con cinque pecore e sovente toccava a me portarle al pascolo. Dal fondo del cortile incominciavano i terrazzamenti con i filari di vite, alternati da piante di gelso.
Il panorama che si poteva osservare era meraviglioso: Gorzegno,il mio paese, era raggruppato giù a valle. Poche case dai tetti in pietra e la chiesa, al centro di queste, si distingueva col suo alto campanile.
Il Bormida, con le sue acque marrone scuro, che girava attorno al paese.
In famiglia eravamo in tutto sette persone: io, due fratelli maggiori (Giovanni e Giuseppe), i miei genitori (Marcellina e Luigi), il nonno materno (Luigi) e una vecchia zia che tutti chiamavamo madrina.
Il capo famiglia era il nonno, da tutti chiamato Vigiotu.
Era lui che prendeva le decisioni sulle cose da fare per gestire l'azienda agricola.
Lo faceva, però, in modo democratico consigliandosi e discutendone con mio padre e mia madre.
Le decisioni più importanti si prendevano alla sera, mangiando cena o stando a vegliare.
Era in quei momenti che si programmava il lavoro da farsi all'indomani e si parlava dei problemi passati e presenti.
Il discorso cadeva spesso sui tristi ricordi della guerra e sempre più sovente si parlava di quella fabbrica maledetta “la Montecatini" e sulle conseguenze che essa causava alla nostra valle.
Particolarmente, ricordo bene una sera che venne un vicino di casa a trovarci: mio padre, come sempre in quelle occasioni, arrivò dalla cantina con una bottiglia di vino nero con attorno al collo un filo di lana colorata che probabilmente stava ad indicare l'annata o la qualità. Tolto il tappo ne versò un dito nel bicchiere e dopo averlo annusato lo assaggiò a piccoli sorsi. Vidi subito mio padre trasformarsi: da tranquillo e allegro, come solitamente era, diventò nervoso, incominciò a mugugnare e rivolgendosi a mio nonno disse con voce dura ma pacata: «basta ... a cominciare da quest'autunno togliamo tutte le viti, non possiamo continuare a lavorare tanto per poi buttare via tutto. Questo non è vino questo è acido fenico!».
Per un lungo attimo tutti stettero zitti, nessuno osò fiatare.
Mia madre, alle prese con i piatti (in un lavello scavato da una pietra), si girò a guardare, la vecchia zia che sonnecchiava appoggiata allo schienale di una sedia alzò la testa, mancavano solo i miei fratelli, usciti ad attingere un secchio d'acqua dalla cisterna.
Il nostro vicino di casa stava per dire la sua, ma il nonno prese la parola e con voce pacata ma grave disse rivolto a mio padre: «le viti non si toccano non è quello il modo di risolvere il problema. Dobbiamo unirci tutti assieme con gli altri paesi e protestare, siamo usciti dalla guerra e adesso non sarà la Montecatini a mandarci in malora! non dobbiamo permetterglielo».
Per quella sera non si parlò d'altro.
Pure mia madre era preoccupata perché quando faceva “lescia" non poteva più andare a risciacquare la biancheria nel Bormida.
“Lescia" (per chi non lo sa) era un modo di lavare la biancheria quando ancora non esistevano i detersivi e in casa non si aveva ancora l'acqua dai rubinetti.
Si accumulava la biancheria, la si metteva dentro dei tini di legno e si ricopriva con della cenere, quindi si aggiungeva acqua che filtrava e usciva di sotto.
Il procedimento durava qualche giorno, dopo di che la biancheria si tirava fuori e si andava a risciacquare al fiume, nell'acqua corrente.
Io aspettavo sempre con gioia il momento in cui si faceva lescia, per poter andare col carro tirato dai buoi al fiume e lì, mentre mia madre risciacquava la biancheria, andare a giocare lungo il Bormida con i miei fratelli.
Pensandoci mi sembra di sentirlo ancora adesso quell’odore che mi penetrava nel naso e pizzicava la gola.
Quell'acqua rossa colore del vino per me era normale, l'avevo sempre vista così e non riuscivo ad immaginarla diversamente.
Quell'odore di medicina lo confondevo con l'odore dello sciroppo che il dott. Torcello mi faceva prendere per curarmi la tosse.
Nei giorni che venivano, si parlò sempre più sovente del fiume e della fabbrica.
In paese si tennero riunioni alle quali partecipavano anche le donne, con appresso i bambini.
Io non ho mai partecipato a quelle riunioni ma ero sempre informato di tutto, so che si parlava di una manifestazione: allora la chiamavano sciopero.
Ricordo che si parlava di un certo onorevole Giulitti, ma mio padre e mio nonno non credevano in quelle persone, dicevano (per esperienza) che si sarebbero fatti vedere solo quando c'erano le votazioni per prendere un po’ di voti poi si sarebbero dimenticati di noi.
I comizi in piazza me li ricordo bene!
Quando alla domenica mattina dopo la S. messa “granda”, un signore distinto nel vestire saliva su di un palco improvvisato e lì si metteva a urlare a squarciagola contro la fabbrica di Cengio, contro il Bormida che puzzava di fenolo, e lì.....giù a fare promesse!
Alla fine la gente batteva le mani e quando il signore ben vestito scendeva dal palco, incominciava a stringere mani a destra e a sinistra.
Alla domenica la nostra famiglia si trasformava, non si parlava più di lavoro: al mattino mi svegliavo e sentivo un buon odore di brodo provenire dalla cucina dove stava bollendo una gallina.
Papà “VIGI” (Luigi) stava già suonando il clarino, la sua grande passione; il nonno già arrivato dalla prima messa, con la sua camicia di tela bianca con sopra il panciotto nero, seduto sullo scalino di pietra davanti all'uscio di casa leggeva senza occhiali la "GAZZETTA D'ALBA".
La prima ad essere consultata era la pagina dove c'erano i mercati con i prezzi dei vari prodotti agricoli, poi cercava l'articolo sulla "Montecatini" e lì incominciava a sbuffare.
Quasi tutte le settimane c'era un articolo sulla valle Bormida, ma se una volta il giornalista sembrava dare ragione ai contadini, evidenziando i danni provocati ai pozzi e ai prodotti agricoli, la volta dopo minimizzava tutto e sembrava condannarne le proteste in programma.
Questi cambiamenti d’opinione mandavano in furia mio nonno e i miei compaesani che sempre più spesso parlavano di sciopero con carri tirati da buoi.
Tutto ormai era quasi pronto, anche la data era stabilita.
Il nonno e mio padre ci spiegavano il programma.
Saremmo andati tutti, a casa nostra dovevano restare solo le donne.
Avremmo attaccato il carro più lungo, con sopra un lenzuolo di fieno per dare da mangiare ai buoi durante la sosta sulla strada.
Prima di partire avremmo dovuto abbeverare i buoi e pulirli con la "stria" e la "panadura".
Il nonno spiegò a me e ai miei fratelli che sarebbe stato diverso dall'andare ad una fiera, che non ci sarebbe stato il carretto dei gelati o l'osteria col profumo di trippa.
Noi saremmo dovuti stare a turno davanti ai buoi e non allontanarci troppo dal carro. L'unica persona in famiglia non del tutto convinta era mia madre, più che altro penso fosse preoccupata perché tra gli organizzatori di quella protesta c'era un certo on. Giulitti, che era del partito comunista.
Mia madre non vedeva di buon occhio i comunisti, lei era più vicina alla Democrazia cristiana e proprio la D.C era contro il movimento e chiamava comunisti tutti quelli che erano a favore dello sciopero.
Non ricordo la data ma mi sembra fosse un sabato dei mese di APRILE: il grande giorno era arrivato.
L'appuntamento era per l’una del pomeriggio giù sullo stradone in fraz. Moglie.
Già a mezzogiorno, per le strade di campagna che portavano al paese, si sentiva un gran vociare e il rumore dei carri che scendevano a valle.
Era giunta l'ora anche per noi di attaccare i buoi al carro e partire.
Mio padre mise sul carro oltre al fieno anche due coperte di stoffa a quadretti, unte e malandate: servivano a coprire i buoi in caso di pioggia e per ripararli quando erano sudati. La salute degli animali era importante quanto quella dei cristiani....
Verso le tre del pomeriggio, il tratto di strada lungo circa 3 km che separa la borgata Gisuole dalla fraz. Costa di Gorzegno era tutta piena di buoi coi carri e di tanta gente a piedi, alcuni anche in bicicletta.
Vecchi, uomini, donne e bambini. C'era anche un signore anziano con un caprone legato ad una corda che portava in giro tra i carri: il caprone emanava una puzza terribile e al suo passare la gente rideva e lanciava battute scherzose.
Tutto era tranquillo e aveva l'aspetto di una grande festa.
I bambini a gruppi improvvisavano giochi, le donne si raccontavano problemi e pettegolezzi, non mancavano alcune coppiette che cercavano di distogliersi dallo sguardo dei manifestanti.
C'era poi un giovane sui 20 anni con una moto, che per farsi notare dalla gente si mise a scorazzare avanti e indietro per una strada sterrata vicino allo stradone, finché ad un certo punto cascò per terra fra le risate di tutti.
Ad un certo punto arrivò la corriera, dovette fermarsi, ed io, ebbi così modo di vederla finalmente da vicino.
Fino a quel giorno la vedevo sempre da casa mia passare per lo stradone: blu, col muso lungo, sulla capotta c'era una ringhiera con il posto per le valige e sul retro una scaletta per salirci sopra.
Sembrava una diligenza che si vedono nei film western.
Non ricordo se riuscì a passare o se si fermò lì fino a notte.
Ricordo che sul tardo pomeriggio la gente incominciò ad agitarsi e si ammassò presso una macchina che arrivava da Cengio: pare fosse un dirigente della Montecatini oppure uno mandato appositamente a provocare.
Volò qualche parolona e qualche imprecazione ma alla fine tutto fini per il meglio.
Io dovetti restare quasi sempre vicino ai buoi, così non riuscii a seguire i vari comizi improvvisati.
Ricordo di aver visto tanti carabinieri e gente forestiera, ben vestita, che girava tra la gente e faceva domande.
Penso fossero giornalisti o curiosi venuti da fuori.
Il pomeriggio era passato velocemente e si stava facendo buio, ma la strada era ancora piena di carri e buoi, ed era ormai notte quando, a poco a poco, la strada si liberò.
La gente tornò a casa stanca, arrabbiata, con qualche speranza in più, ma senza farsi troppe illusioni.
La sera, da noi, non si parlò d'altro che di quella giornata: mio padre e mio nonno, che conoscevano quasi tutti, facevano la conta delle persone che avevano partecipato e facevano nomi di persone venute da Levice, da Torre Bormida e persino da Cortemilia.
Purtroppo, ben presto, arrivò un altro elenco in paese con 54 nomi e cognomi di persone di Gorzegno e Levice: i contadini e alcuni politici dovevano essere processati per la sola colpa di essersi battuti in difesa dei loro diritti e della loro terra.
Non hanno usato violenza, non hanno usato modi illegali, volevano semplicemente far sentire la loro voce a chi di proposito non voleva sentirla.
Non so con quale criterio scelsero quei 54 nomi fra la marea di gente presente in strada quel famoso giorno.
C'é chi dice abbiano preso uno per famiglia.
Io so per certo che nella mia famiglia gli imputati erano due: Troia Luigi, classe 1883, e Bertola Luigi, classe 1912, rispettivamente mio nonno e mio padre.
Questo fatto scosse non poco la tranquillità della famiglia.
Il dover affrontare un processo non era cosa da poco e il fatto che fosse tutto il paese coinvolto non tranquillizzava più di tanto i miei vecchi.
Durante l'attesa del processo si parlò anche di amnistia (parola di cui, a quei tempi, non conoscevo il significato), ma questo servì solo ad aprire le porte delle carceri a varie categorie di delinquenti.
Ma a quei 54 poveretti il processo si doveva fare e col processo arrivò anche la condanna.
Il giorno del processo, per noi che restammo a casa, fu un giorno di grande attesa e agitazione: mia madre girava avanti e indietro e non riusciva a combinare niente di buono, il tempo sembrava non passare più.
Tornarono a casa condannati ma a testa alta e si leggeva nei loro volti non rabbia ma addirittura serenità.
Fu mio padre il primo a parlare, a spiegarci che per lui non contava la condanna, ma contava la sua coscienza, e lui la coscienza ce l'aveva pulita perchè la causa per cui si era battuto era giusta: si diceva pronto a rifarlo.
Nessuno in casa aprì bocca a quelle parole.
Anch'io rimasi in silenzio e incominciai a riflettere.
Pensai all'ingiustizia che dovevano subire quelle persone condannate, pensai alla fabbrica che continuava a mandarci giù veleni e al suo potere di far tacere interi paesi.
Pensai a quegli operai che quando scendevano dal pulman che li riportava dal lavoro, avevano un volto giallastro e puzzavano di medicina.
Pensai ancora a mia madre che non poteva più andare al fiume a risciacquare il bucato.
Tutti questi pensieri me li portai dietro anche durante la notte e nei giorni che seguirono e fecero nascere in me una sensazione nuova che non sapevo descrivere, non so se paura, odio o voglia di vendetta.
Forse era tutto quello assieme.
Al tempo del processo avevo tredici anni e sentivo forte la voglia di evadere, di cambiare vita e di ribellarmi a quella triste situazione.
Incominciai a fare domande su quella fabbrica, prima ai miei fratelli, poi a mio padre e mio nonno. Ne parlai con gente di fuori dalla famiglia, tutti erano consapevoli della gravità del problema, tutti si preocupavano per il danno che quella fabbrica arrecava ai prodotti della nostra terra.
Quei poveri contadini, miei compaesani, dopo quell’ultima esperienza, sembravano rassegnati. Continuavano a lavorare sodo la propia terra, estirpando le vigne lasciando solo il necessario per il consumo famigliare.
Ricordo con tristezza quei lunghi filari di viti, su quei lunghi muri di pietra a secco che giravano seguendo il crinale delle colline. Ognuno aveva il propio nome; “la firagnà dla .salvia,....er firàgn di vutei......er firagniun......”.
Nel giro di pochi anni le piante di vite sono state estirpate lasciando sole le piante di gelso che servivano per l’allevamento dei bachi da seta.
La mia famiglia, per l’insistenza di mio nonno, è stata una delle ultime a rassegnarsi ma alla fine la nostra uva non la comprava più nessuno e il vino, l’estate sucessiva alla sua fermentazione, scorreva giù nel prato adiacente alla cantina, inebriando la terra e facendo rabbrividire tutti noi della famiglia.
A lunghi periodi di silenzio e di rassegnazione, si alternavano periodi in cui il caso riesplodeva con tutta la sua drammacità.
Ogni tanto saltava fuori in valle qualcuno che veniva a parlare nelle piazza o nei saloni parocchiali.
Persone decise che sembravano pronte a tutto, anche a sacrificarsi per la “causa”.
Incominciavano ad imprecare contro la Montecatini (ACNA) e battevano i pugni sul tavolo. La gente ascoltava attenta e nelle mie viscere si sprigionava la voglia di vendetta. Ogni volta dicevo a me stesso che forse sarebbe stata la volta buona, ma purtroppo quell’illusione durava solo quanto un fuoco di paglia e quei personaggi finivano come una bolla di sapone.
Imparai così a non credere più al primo arrivato, e a non giudicare la capacità e la sincerità delle persona dal tono della voce.
Davo invece sempre di più fiducia a quei 54 miei compaesani che erano stati condannati per il solo fatto di aver urlato i loro diritti dal bordo di una strada, e apprezzavo sempre di più le parole di mio padre: «mi sono battuto per una giusta causa, sarei pronto a rifarlo».

mercoledì, settembre 21, 2005

cap. 2 la rinascita

LA RINASCITA

La piccola utilitaria, stracolma di bagagli e con la famiglia al completo, percorreva gli ultimi metri sulla vetta della collina, prima di addentrarsi giù dalla discesa che da Cravanzana porta a valle.
Sentii nei miei polmoni un’aria dolce, rilassante: un’aria di casa mia.
La strada si faceva stretta, tutt’intorno una ricca vegetazione formata da alberi e rovi. Di tanto in tanto, qualche povera casa di contadini.
Dentro di me scoppiavo di orgoglio e di gioia: non era certo merito del paesaggio che, anzi, era abbastanza desolante, triste.
Era povera quella valle in cui ero appena entrato….però era la mia valle, la valle Bormida.
Ci tornavo sovente, mi sono chiesto tante volte il perché, ma mi sentivo legato a quella terra e non potevo scrollarmela di dosso.
Quella sera era diverso, ci sarei rimasto, mi sarei sistemato con la mia famiglia nel piccolo paese che mi aveva visto nascere, tra la mia gente, e il mio cuore cantava di gioia.
Certo non era più la valle di una volta: quella macchia selvaggia di verde, che copriva le cime delle nostre colline, era discesa sempre più in basso, inghiottendo quei bei muri in pietra e quei filari lavorati come enormi giardini.
Molte case, in campagna, ma anche in paese, avevano la luce spenta.
La gente se n’era andata, alcuni in cerca di fortuna, la maggior parte semplicemente per guadagnarsi da vivere.
La terra non rendeva più, quello era un problema generale, ma nella nostra valle la situazione era peggiore: i nostri prodotti sapevano di acido fenico e altro lavoro non ce n’era.
I miei figli, come me, fecero i loro primi passi e le loro prime esperienze su quella terra.
Nel tempo libero mi dedicavo a loro e il nostro passatempo preferito erano le lunghe passeggiate per la campagna.
Quando il tempo a disposizione era sufficiente, si arrampicavamo fin su dai nonni, e lì i ricordi e le cose da raccontare erano veramente tante.
Un’altra meta ricorrente era la “pianca” (passerella) sul Bormida, che dal vecchio mulino portava alla frazione dei sergenti.
Quella passerella era fatta di tronchi e assi di legno, legati assieme con chiodi e fili di ferro.
Era una lotta continua che l’uomo faceva con il fiume.
Ogni temporale violento o autunno piovoso, il fiume si ingrossava e se lo portava via.
Attraversavamo quel rudimentale e traballante ponticello in fila indiana, tenendoci per mano e cercando di evitare movimenti bruschi.
Dall’altra parte, un piccolo muretto in pietra ombreggiato da un alto salice, ci offriva un posto ideale per riposarci guardandoci attorno.
Era quello il momento della riflessione e delle domande.
Sebbene semplici e ingenue, non sempre mi era facile rispondere.
Così un giorno ho dovuto spiegare loro perché l’acqua che scorreva sotto quel ponte era così nera e schifosa da fare ribrezzo solo a vederla, e il suo odore così acre che ti entrava nel naso e attaccava la gola, attraversando tutto il corpo lasciandoti il gelo dentro.
Dovetti confessare ai miei figli, con tanta vergogna in cuore, che quell’acqua era già così nera e puzzolente quando ero bambino io e ancora prima quando mio padre, ragazzino, l’attraversava ogni sera per andare a lezione di musica.
Raccontare quelle cose ai miei bambini non mi esaltava per niente, al contrario mi sentivo imbarazzato, quasi che la colpa di tutto quel disastro fosse mia.
«Ebbene sì, la colpa di tutto quello scempio è anche in parte mia, del mio silenzio, della mia rassegnazione», mi ripetevo ogni volta che mi fermavo a riflettere fissando con lo sguardo il Bormida.
Sentivo dentro di me il bisogno di fare qualcosa ma ero impotente, guardavo negli occhi i miei figli e capivo che almeno dovevo provarci, come ci provò mio padre e come ci provò mio nonno.




Estate 1987

Giornali e televisioni davano sempre più spazio ai problema dell’ambiente.
Si parlava spesso del “buco dell’0zono” e dell'inquinamento della terra e dell’atmosfera.

Nell’estate del 1987, la RAI, in un programma dedicato all’ambiente, invitò i telespettatori a segnalare casi di degrado ambientale, in modo da poter realizzare e trasmettere un servizio.
Alcuni giovani di Vesime raccolsero al volo quell’invito e segnalarono il caso del Bormida, e l’inquinamento dell’intera valle.
La RAI venne in valle a girare un servizio che in seguito mandò in onda.
Questo bastò a riaccendere quella fiamma, mai del tutto sopita, che era dentro a tanti di noi.
Io fui avvertito dall’allora sindaco di Gorzegno, Alessandro Gallesio, che a Cortemilia si sarebbe ritrovato un gruppo di persone per parlare del problema della valle, e mi invitò a partecipare anche a nome suo.
Non mi feci ripetere un’altra volta l’invito, e subito mi attivai per liberarmi dagli impegni lavorativi.
Mi presentai all’appuntamento con mille incognite nella mia testa: non avevo idea di chi avrei trovato, non sapevo neanche il luogo esatto dove si teneva l’incontro.
Conoscendo molto bene Cortemilia, andai per intuito: non trovando nessuno nel Comune e neanche nell’oratorio, andai direttamente verso la salita dell’ex convento francescano.
Camminavo pensando a quei comizi degli anni addietro, quando l’oratore batteva i pugni sul tavolo e si faceva ingrossare l’arteria del collo.
Entrai nel salone, titubante, quasi in punta di piedi e rimasi sorpreso nel trovare solo poche persone, sedute a cerchio, senza nessuno in centro a fare da oratore.
Tutti potevano parlare, come si parla in un bar quando l’argomento si fa interessante. Alcune di quelle persone le conoscevo già, almeno di vista, altre non sapevo chi fossero.
C’erano i due giovani di Vesime che avevano fatto venire la RAI, qualcuno di Bubbio e di altri paesi verso Acqui Terme.
Alcuni, come me, stavano solo a sentire attentamente in silenzio, altri erano molto ben documentati con fogli e articoli di giornale alla mano, e tiravano fuori dati e notizie per me nuove, nonostante credessi di essere aggiornato sull’argomento.
La discussione andò avanti per tutta la serata e ne uscì un punto fermo e chiaro per tutti: bisognava essere uniti, unire le proprie forze, le proprie idee, le proprie esperienze. Bisognava portare altri amici, parlare con la gente, ma sopratutto sentire la gente.
Lo scopo era di combattere l’inquinamento e il degrado della valle Bormida e, di conseguenza, combattere la fonte di tutto quello, che era solo e da sempre l’ACNA di Cengio.
Combattere l’inquinamento e recuperare il nostro fiume, per avviare la rinascita della nostra valle.
Così quella sera d’agosto, nel vecchio convento Francescano di Cortemilia, con una semplice chiacchierata tra amici, nacque una nuova associazione che prese il nome proprio da quell’impegno.
Nacque l’Associazione Rinascita Valle Bormida.

martedì, settembre 20, 2005

cap. 3 marcia su Cengio

MANIFESTAZIONE A CENGIO

Erano da poco passate le sette del mattino, in casa era già tutto in movimento, così decisi di alzarmi anch’io per rendermi conto dell’umore che regnava in famiglia a quell’ora strategica in cui i miei figli dovevano partire per la scuola.
La giornata di studio che avevano davanti non li entusiasmava, ma non per questo mancò l’occasione per qualche battuta e qualche giochetto al volo.
Presto la casa fu vuota e silenziosa e, poiché non riuscivo a concentrarmi, andai dritto nei boschi, sul bricco delle Pianelle.
Da sempre, passeggiare nei boschi mi apre la mente e mi stimola il pensiero.
Quella mattina ero libero fino a mezzogiorno e oltretutto, nei boschi e in quel periodo, c’era la possibilità di trovare qualche “porcino”.
Camminando tra le felci e le foglie secche pensavo alla sera prima, a quella chiacchierata tra amici e all’impegno preso per far rinascere la nostra valle.
Come spesso capita nei nostri paesi di campagna, è più facile incontrare una persona pei boschi che non sulla piazza del paese….infatti, sentito un fruscio, notai poco lontano una di quelle persone che nel nostro paese sono “intrigate” un po’ in tutto, e che sa tutto di tutti.
Lo informai con entusiasmo di quello che stava nascendo in valle, del movimento appena nato per controllare l’Acna.
Mi aspettavo una parola di plauso, d' incoraggiamento, invece mi guardò con un’espressione di commiserazione , e scrollando la testa mi disse in dialetto gorzegnese: «scaudeve nant er pisc, tant èradisci nant……chila a cata teuc», che vorrebbe dire: non scaldatevi il piscio, tanto non riuscirete a farvi le vostre ragioni, quella (l’Acna), compra tutti.
Ripresi il mio cammino un po’ deluso, quel compaesano che avevo appena incontrato, non mi aveva detto niente di nuovo, ma al contrario, una vecchia verità.
Mi preoccupava però quella rassegnazione che ho trovato in lui e in tanti altri.
Per fortuna non tutti in valle la pensavano così.
Alle riunioni successive la partecipazione aumentava a dismisura, almeno una persona per paese era sempre presente e le serate furono sempre più animate.
Con il mese di ottobre la neonata “Ass. per la Rinascita Della Valle Bormida” si attivò in numerose iniziative. Partirono le prime delibere, si incontrarono Assessori regionali, liguri e piemontesi, e si cercò il dialogo con il sindacato.
Incominciarono pure le prime proteste, a Monastero Bormida, in data 8 Novembre 1987, il 94% degli elettori non si presentò alle urne, reagendo alla scelta del governo di mantenere le produzioni dell’Acna.
Il 22 Novembre dello stesso anno si recarono a Cengio un gruppo di 600 persone che manifestarono per le vie del paese chiedendo ad alta voce: «vogliamo l’acqua pulita! ».
I partecipanti al corteo portavano con sé un solo striscione con sopra scritto: «Delegazione organizzatrice delle prossime proteste».
Era solo l’inizio di una grande protesta, era un messaggio, un preavviso che se non si fossero presi provvedimenti, la popolazione avrebbe reagito con tutte le forze legalmente disponibili.
Pochi giorni dopo quella prima manifestazione arrivò sulle nostre teste una grave dichiarazione dal Consiglio dei ministri: la valle Bormida venne dichiarata “Area ad elevato rischio di crisi ambientale”.
Quel triste marchio peggiorò ulteriormente l’immagine e l’economia della nostra valle e nello stesso tempo diede una spinta a smuovere quelli fra noi che ancora erano titubanti e stavano a guardare dalla finestra.
Continuarono così, in modo sempre più serrato, le iniziative contro quel mostro chimico: si organizzarono incontri con Consiglieri regionali, si fecero riunioni con i sindaci della valle, si svolse anche un incontro tra gruppi di Parroci della bassa ed alta valle Bormida.
Il 5 Marzo 1988 si organizzò a Cortemilia un convegno con tutte le Comunità Montane interessate, sul tema: «Valle Bormida - un progetto per la rinascita».
In quell’incontro si formularono alcune proposte ambiziose, ma per realizzarle si giudicò inevitabile la chiusura dell’Acna.
Intanto era stata fissata la data del 20 Marzo per una grandiosa manifestazione a Cengio.
Lavorai tanto anch’io per quella manifestazione, preparai striscioni, appesi manifesti, partecipai ad incontri.
Ci tenevo tanto a marciare per le vie di Cengio, poter urlare contro quella fabbrica della morte.
L’ultima volta che avevo preso parte ad una manifestazione avevo appena undici anni e dovevo stare vicino ai buoi. Quella volta capii la gravità della cosa guardando in volto mio padre e il nonno: quel 20 Marzo 1988 sarebbe stato diverso, avrei manifestato per difendere un mio diritto, avrei urlato la mia rabbia per vendicare il nonno, morto ormai da venticinque anni, il quale era stato condannato ingiustamente. Avrei urlato con tutto il fiato che avevo in gola, in modo che, tornato a casa, avrei potuto guardare negli occhi i miei figli senza vergognarmi.
Tutto era ormai pronto: nei bar, nei mercati, davanti alle chiese non si parlava d’altro. I muri erano tappezzati di manifesti e lungo la statale apparvero anche alcune scritte in vernice con slogan contro la “fabbrica della morte “.
E il grande giorno arrivò: mi alzai dal letto in un bagno di sudore, le gambe non mi reggevano in piedi e la testa mi girava. Non so per quale malefico destino, ma avevo buscato una terribile influenza. Dovetti tornare a letto e rinunciare al pranzo. Stavo male per l’influenza ed ero a terra con il morale. Non potevo partecipare a quella manifestazione. Dalla finestra in fondo al corridoio, guardando in alto, vedevo la curva che la statale faceva uscendo dalla galleria. Erano circa le 13,30 quando il primo pullman sbucò da quella curva strombazzando. In seguito alcune macchine, poi di nuovo un pullman, ed un altro ancora, ne contai oltre trenta poi persi il conto.
Tutti andavano verso Cengio, mai quella strada aveva visto tanti mezzi passare, mai come quel giorno mi sentii prigioniero in casa.
Non riuscivo a stare in piedi per colpa dell’influenza e non riuscivo a stare a letto perché troppo agitato.
Il pomeriggio fu quindi lungo e travagliato: ebbi le prime notizie sulla manifestazione dai telegiornali, poi sentii dal vivo la versione di alcuni che avevano partecipato. «E’ stata una grandiosa manifestazione! le vie di Cengio erano stracolme di gente, striscioni, bandiere, gagliardetti di tutti i comuni, associazioni, partiti. Alcuni avevano stimato 8000 persone, altri dicevano 10000. Comunque sia, è stata una grande manifestazione».
Vinto dalla febbre, mi addormentai e per tutta la notte sentii le urla di quella gente che chiedeva giustizia, vidi Cengio invasa da una folla immensa, e mio nonno in piedi su di un carro, che sorrideva soddisfatto sotto i suoi lunghi baffi bianchi.

lunedì, settembre 19, 2005

cap. 4 il saluto del ministro

IL SALUTO DEL MINISTRO

Eravamo ai primi di maggio del 1988.
Per le vie del paese si respirava aria di festa: erano incominciati i preparativi per la sedicesima “Sagra del Pollo”.
Alla sera, dopo cena, le donne più volenterose di Gorzegno si trovavano assieme per preparare gli agnolotti al plin da distribuire durante la festa.
Nonostante l’entusiasmo, il lavoro e il grande impegno per i preparativi della festa, i discorsi e le discussioni della popolazione cadevano sempre sull’argomento ACNA e sulla lotta per ottenere la sua chiusura.
Era in programma per venerdì 6 Maggio un incontro a Bossolasco, presso la sede della Comunità Montana Alta Langa, organizzato dai vertici della Comunità Montana con i dirigenti dell’ACNA, per cercare di far luce sulla problematica creatasi dopo che la Valle era stata dichiarata area ad alto rischio ambientale.
I consiglieri valbormidesi avevano espresso la volontà di non partecipare a quell’incontro e così pure la popolazione, che non ne voleva più sapere di sentire le solite promesse.
Tutti sapevano che qualunque cosa l’ACNA avesse proposto non l’avrebbe mai mantenuta.
Erano finiti i tempi delle trattative, ora ci voleva un taglio netto.
“ACNA chiusa e basta!”: questa era la parola d’ordine sulla bocca di tutti.
Io, al tempo, avevo ben 43 anni ma devo ammettere che in certe cose ero ancora ingenuo come un bambino: infatti a me non sarebbe dispiaciuta l’idea di sedere a un tavolo con lor signori per vedere come si sarebbero difesi dall’accusa di aver avvelenato una Valle, sentire quali erano i loro progetti per riparare, almeno in parte, il grave danno che avevano arrecato.
Pensavo tra me e me: “a questa riunione sono invitati sindaci e politici, è impossibile che non riescano a fare valere i nostri sacrosanti diritti”.
La risposta, anzi la smentita alle mie infantili illusioni, è arrivata puntuale e chiara proprio quel 6 Maggio.
Era una di quelle giornate già tiepide, primaverili, e a Bossolasco il panorama era a dir poco splendido: lo sfondo delle montagne e la cima del Monviso innevata….ma questo, a dir la verità, poco importava a noi poveri pellegrini.
Eravamo circa 150 persone arrivate a gruppi con le proprie auto dai vari paesi della valle: da Gorzegno eravamo partiti nel primo pomeriggio con sette macchine, qualcuno ci aveva già preceduti, come Renzo Fontana che con altri giornalisti e politici era stato ricevuto al mattino all’interno dell’ACNA con dolciumi, bibite e con i viali rinnovati da ghiaia di montagna ed enormi fioriere.
La sede della Comunità Montana era situata tra la provinciale e la via principale del paese e per accedere al locale bisognava fare un breve tratto a piedi e percorrere un balcone.
L’entrata era praticamente circondata da noi contestatori, ma il passaggio era libero.
Qualcuno già era dentro, qualche consigliere entrò tranquillamente tra l’indifferenza di tutti. Ad un tratto il composto vociare della popolazione si trasformò in un mormorio subito seguito da un lungo applauso….stava arrivando l’ing. Obertino, presidente della Comunità Montana.
Un applauso talmente composto che in un primo momento il presidente si fermò e sfornò un cordiale sorriso con aria compiaciuta e orgogliosa. Non ci mise molto a capire che quell’applauso era ironico e infatti si trasformò in fischi e urla: “Obertino hai tradito la tua Valle”….”Obertino ti sei venduto”.
A quel punto il presidente allungò il passo, fece i pochi metri del terrazzo e si infilò dentro in fretta e furia senza voltarsi indietro.
Entrarono ancora alcuni consiglieri e tre signori distinti con le borse di pelle e il giornale sotto il braccio, erano gli alti vertici dell’ACNA: il dottor Salucci, il dottor Viganò e l’ing. Pasquon.
S’incamminarono verso la sede col sorriso tra le labbra e lo sguardo amico. Tra noi subito s’intonò un grido “ACNA chiusa!…ACNA chiusa!” e anche il loro sorriso si trasformò, il passo si fece più svelto: diretto verso il terrazzo e dritti verso la porta senza voltarsi.
Nessun sindaco e nessun consigliere della valle era presente in sala. Come deciso in precedenza non volevano negoziare la salute dei cittadini con i dirigenti dell’ACNA.

IL SIGNOR MINISTRO:

Eravamo tutti ammassati davanti all’entrata della sede dove era in programma “l’incontro farsa” e non riuscivamo a capire se questo fosse cominciato o meno.
Il nostro scopo era fare sentire la protesta a chi responsabile, far entrare le nostre grida tra le mura e le porte sbarrate.
Ad un tratto ci fu quasi un silenzio totale, tutti si girarono verso la Provinciale dove, da un'auto blu, era sceso in mezzo a noi nientemeno che il Ministro della sanità: Donat - Cattin.
Io e alcuni vicino a me restammo senza parole.
Penso sia stata una sorpresa per tutti, perché tutti rimasero quasi in silenzio.
Il Ministro, dritto su di sé e con volto austero e serio, si diresse a passi lunghi e veloci verso l’entrata.
Ruppe il silenzio la voce sottile ma penetrante di una donna: ”signor Ministro!……signor Ministro!”….ma egli tirò dritto, passò sui miei piedi e in un attimo raggiunse la porta. La donna continuò con voce implorante, aiutata adesso da alcuni di noi: ”signor Ministro! ….solo una domanda!”
Il ministro impugnò la maniglia e aprì la porta.
Finalmente tranquillo per aver raggiunto il suo traguardo, si voltò di scatto verso di noi e con un ruggito forte e chiaro rispose a tutti i presenti con le testuali parole: "non rompetemi le palle!…”.
Poi, senza aspettare risposta, si rivolse ad un povero carabiniere in servizio vicino all’entrata e gli urlò in faccia in modo sgarbato: ”cosa ci fanno quelli lì fuori?…chiama dei rinforzi mandali via….sgomberare! ! ! “.
Rimasi letteralmente senza parole: non riesco a descrivere quello che ho provato in quel momento.
Io che fino a quel momento credevo al dialogo, alle istituzioni, mi sono sentito crollare il mondo sotto i piedi, con un miscuglio di delusione e rabbia. Sono rimasto come un bambino di pochi anni a cui è stato detto in modo sgarbato che Babbo Natale non esiste.
Fu in quel pomeriggio del 6 Maggio che finì la mia ingenuità e all’età di 43 anni non ancora compiuti divenni un po’ più adulto.
Intanto la situazione in piazza si era surriscaldata: arrivarono puntualmente i rinforzi chiesti con prepotenza dal Ministro ma arrivarono anche parecchie macchine di manifestanti da Cortemilia, da Vesime e da buona parte della valle Bormida.
I manifestanti in coro invitavano l’onorevole Donat - Cattin ad uscire fuori e le urla e le imprecazioni si fecero sempre più forti.
Ad un tratto la porticina del terrazzo si aprì e ne uscì un Signore dall’aria buona, che venne in mezzo a noi, a parlarci in modo amichevole.
Era il “buon“ Ruffino, onorevole, grande amico ed ex legale dell’ACNA. Ci raccontò che anche lui era un valligiano molto legato alla nostra valle, disse che avevamo ragione e che avrebbe fatto il possibile per far valere le nostre ragioni, ma anche che l’ACNA da quel momento avrebbe rispettato le leggi e che aveva il diritto di lavorare.
Ci fece capire che potevamo andare a casa tranquillamente e che ci avrebbe pensato lui.
Nonostante il suo modo cordiale, non convinse nessuno……l’unico ingenuo presente era diventato adulto pochi minuti prima……e si riprese a urlare sempre più forte e sempre più numerosi “ACNA chiusa!…..ACNA chiusa!” e ci si rivolgeva poi al Ministro, invitandolo fuori.
Si stava facendo tardi, io avrei dovuto essere di turno per la notte, ma non me la sentivo di lasciare la compagnia, non sarei scappato senza rivedere in faccia quell’uomo dalle “palle rotte“, quell’uomo che mi aveva aiutato a crescere e a maturare.
Nessuno diede segni di stanchezza, anzi al contrario continuava ad arrivare gente.
Finalmente la porta si aprì e qualcuno incominciò a uscire scortato dalle forze dell’ordine, seguito appena da qualche fischio.
Ormai era chiaro che la nostra attenzione e la nostra attesa era tutta rivolta per il Ministro Donat - Cattin, che uscì quasi portato in braccio da un cordone di carabinieri.
Potemmo solo urlare la nostra rabbia e seguire con lo sguardo quell’ammasso di divise che si avvicinava all’auto blu che attendeva di fianco alla provinciale.
Quando la portiera fu aperta e il Ministro stava per salire si voltò verso di noi per uno speciale saluto………alzò l’avambraccio destro e lo colpì fortemente col sinistro in segno di sfratto.
Non ho capito le volgari parole che hanno accompagnato quel gesto, ma il segnale era forte e chiaro.
Il bel panorama che circondava il paese si era oscurato, non si vedeva più la cima innevata del Monviso, la poesia che rallegrava i nostri cuori si era oscurata. Era scesa la notte su tutto, e tutto intorno tornò il silenzio.
Restavano solo i ricordi: ognuno di noi tornò a casa con i propri; e con i ricordi, le proprie considerazioni.

domenica, settembre 18, 2005

cap. 5 occasioni mancate

OCCASIONI MANCATE

Maggio 1988
La vita apparentemente tranquilla di un operaio, in realtà non è sempre così monotona come sembra agli occhi della gente. Spesso dovevo lottare tra la famiglia e la fabbrica. Alla prima ci tenevo troppo: i bambini, in età scolare, volevo seguirli, essergli vicino nello studio e nello svago. Volevo essere un padre amico, non un padre padrone.
Il lavoro interferiva parecchio con questo mio obiettivo: dovevo lavorare di notte, di sabato e anche di domenica, trovandomi magari libero in settimana quando i bambini erano a scuola. La fabbrica in cui lavoravo, mi chiedeva sempre di più, voleva più produzione, miglior qualità e arrivavo alla fine del turno di lavoro stressato e sfinito.
In tutta la valle la lotta contro l’ACNA era sempre più attiva e serrata: non si contavano più le assemblee e le iniziative. Io che ho creduto in quella lotta da sempre, dopo l’incontro a Bossolasco con il ministro Donat-Cattin, ho visto accendersi in me una sete di giustizia che mi spinse a seguire e a partecipare attivamente a tutte le iniziative. Purtroppo però dovevo fare i conti con la famiglia e il lavoro, così, quel 30 Maggio 1988, salutai dalla mia finestra di casa il pullman carico di miei compaesani, donne e uomini, fra cui mio padre, che verso le nove del mattino partirono dalla piazza di Gorzegno per recarsi al palazzo della Regione a Genova.
Lo seguii con gli occhi e con il cuore quel pullman, ma io quel pomeriggio non potevo mancare al mio lavoro.
A Genova, quel giorno, si svolgeva il consiglio regionale in cui si doveva decidere come risanare la fabbrica di Cengio e la presenza in aula di un consistente numero di piemontesi surriscaldò il dibattito.
La quasi totalità dei partiti liguri era contraria ad una chiusura, seppur temporanea, dell’Acna per il suo risanamento. Nell’aria si ventilava anche uno slittamento del termine, già fissato al 30 Luglio, per presentare il piano di risanamento radicale.
Con tutte quelle scoraggianti prospettive, il pubblico piemontese si indignò e fu allora che sei esponenti dell’associazione “Rinascita Valle Bormida” si incatenarono al balcone dell’atrio della sala consigliare.
La protesta ebbe termine solo dopo la promessa, arrivata via fax da Torino, con cui si fissava un incontro per l’indomani mattina alla regione Piemonte.
Quella singolare protesta attirò parecchi giornalisti, così il nostro problema ebbe modo di farsi conoscere ad un raggio sempre più ampio.
Fare conoscere il nostro caso all’opinione pubblica, possibilmente a livello nazionale, era il nostro obiettivo nelle ultime assemblee. Fu proprio in una di quelle riunioni che una persona tra il pubblico fece notare che il 2 Giugno seguente, a Castelnuovo Don Bosco, avrebbe fatto tappa il Giro d’Italia.
Quale occasione migliore per farci notare dalle telecamere e dai giornalisti?
In pochissimo tempo l’idea ebbe l’unanime consenso di tutta la valle.
Lo scopo non era quello di fermare la manifestazione sportiva, ma soltanto di fare una sfilata con i nostri striscioni e cartelli, sotto l’occhio delle tante telecamere presenti.
In quel modo le nostre immagini e lo striscione con su scritto ”Valle Bormida Pulita” sarebbero entrate nelle case di tutti gli italiani.
Lavorai sodo con gli amici per scrivere nuovi cartelloni, ma anche quella volta dovetti rinunciare alla manifestazione.
Ma anche quel pomeriggio dovetti lavorare: il collega con il quale avevo programmato il cambio turno ebbe un contrattempo, così fui costretto ad accontentarmi di vedere i sei pullman e le decine di macchine partire da Cortemilia verso Asti.
Le forze dell’ordine erano informate di quella iniziativa: già alla partenza e per tutto il tragitto, il corteo fu sostanzialmente scortato fino all’arrivo sul posto dove si svolgeva la manifestazione.
Mancava ancora parecchio all’arrivo dei corridori e il corteo di protesta fece il suo tragitto sulla pista dell’arrivo, sotto gli occhi stupiti di tifosi e forze dell’ordine. Incominciò subito una mediazione con il vicequestore di Asti e con il regista delle trasmissioni Rai.
Si arrivò ad un accordo: i manifestanti avrebbero lasciato libera la pista e in cambio la Rai avrebbe trasmesso per 30 secondi in diretta i nostri messaggi.
Accordo fatto, il corteo con gli striscioni si spostò sul bordo della strada e la pista fu libera. Dopo qualche minuto arrivarono i ciclisti che fecero la loro volata finale.
Una volata, che all’insaputa di tutti era finta.
L’organizzazione della gara, infatti, senza dare comunicazione, aveva deciso di sospendere la gara e assegnare la vittoria a pari merito a tutti i partecipanti.
Sul pullman, durante il ritorno, tutti erano cautamente soddisfatti per aver ottenuto quei trenta secondi di ripresa Rai, tutti erano ignari di quello che era veramente successo.
Così la sorpresa maggiore l’ebbero sentendo la notizia al telegiornale; “la tappa era stata soppressa e il punteggio assegnato a tavolino”.
Tutti i telegiornali ne parlarono ancora il giorno dopo, la stampa nazionale e internazionale diede molto risalto alla cosa.
Alcuni ci accusarono ingiustamente di aver tradito uno sport pulito, altri ci hanno chiamati ecologisti esaltati, ma intanto il nostro striscione con su scritto: “Valle Bormida Pulita” fece il giro di tutti i quotidiani.
Quella sera rientrai dal lavoro stanco ma contento: pur non avendo partecipato direttamente a quella manifestazione avevo colto tutte le emozioni, mi sentivo in mezzo a loro e ne ero orgoglioso.

sabato, settembre 17, 2005

cap. 6 la sala del centro

LA SALA DEL CENTRO
....dalla umile valle ai lussuosi saloni del palazzo regio....

Quando ero ragazzino il mio mondo finiva là: dove il cielo toccava la collina di Mombarcaro già sentivo parlare di Torino. Me ne parlavano i miei fratelli, i miei compagni più alti e me la descrivevano nei modi più svariati: Torino ricca di luci, palazzi, tram e persino automobili!
A Torino, mi dicevano, c’è lavoro, ci sono scuole e i bambini portano le scarpe di gomma. Io ero incuriosito e facevo i miei ragionamenti…………vada per le scarpe di gomma, che senz’altro sono più comode dei miei zoccoli di legno, ma le scuole…….; io facevo prima elementare e accanto al mio salone (che era poi solo una cameretta), c’erano altri quattro locali con sulla porta una targhetta di carta con su scritto CL2°- CL3°- CL4°- CL5°.
Erano troppi per me e il solo pensiero di dover oltrepassare tutte quelle porte, mi sconvolgeva non poco.
Il lavoro poi…..proprio non capivo: già i miei fratelli, ma soprattutto mio padre e mio nonno, arrivavano a casa la sera stanchi dalla fatica.
Io stesso, nelle ore libere dopo la scuola, dovevo andare al pascolo. Così ragionando cominciai ad immaginarmi una Torino a modo mio e man mano che passavano i giorni la modificavo e la ingrandivo, le aggiungevo qualche luce. Me l’ero creata come si crea un castello…..e come tale mi crollò sui piedi prima ancora che varcassi la porta con la scritta CL2°.
Quella mitica Torino che ancora non avevo conosciuto già la odiavo, la disprezzavo come un nemico, come un traditore. Mi aveva portato via “FRANCO”, il mio più caro amico e compagno di gioco. Me lo aveva rubato con la sua famiglia per colpa di quel lavoro che io non capivo.
Passarono gli anni e ho avuto modo di recarmi a Torino per i più svariati motivi.
Non sto a raccontare le emozioni e le sorprese del mio primo incontro con quella città, ma faccio un salto nel tempo e vado direttamente al 1988, precisamente al 12 Maggio.
Partii da Gorzegno con un pullman carico di altri 50 compaesani. Quando fummo in frazione Campetto altri pullman già erano davanti a noi e si stavano arrampicando su per la salita di Borgomale e altri ancora stavano scendendo la tortuosa statale che viene giù da Castino.
Formammo così una colonna di sei pullman, e su ognuno un vistoso cartello portava il nome di un paese: Camerana, Bistagno, Monastero, Levice, Vesime, Sessole. Erano paesi della “Valle Bormida” e la meta era TORINO.
Scendemmo in Piazza Castello, nel cuore della vecchia Torino.
Bellissima piazza con ricchi monumenti, lussuosi negozi.
Ma il nostro non era un viaggio di piacere e neanche un viaggio d'affari. Era piuttosto una missione: dovevamo semplicemente spiegare ai nostri Consiglieri regionali che in Piemonte c’è una valle in cui il fiume che vi scorre è nero e puzzolente e i suoi abitanti muoiono di cancro. La causa di quel disastro è una fabbrica chimica chiamata ACNA ed è situata a pochi metri dal confine tra Piemonte e Liguria.
La pioggia scendeva fitta quel giorno e noi da Piazza Castello ci avviammo a piedi verso Via Alfieri. Al nostro passaggio le vetrine dei negozi abbassavano le serrande.…….non penso lo facessero per rispetto verso di noi ma molto probabilmente avevano paura.
Quando arrivammo in Via Alfieri, davanti al palazzo della Regione, anche il massiccio portone di entrata si chiuse davanti a noi. Restammo fuori sotto la pioggia per ore, mentre dentro Renzo Fontana, Bruno Bruna e altri nostri rappresentanti dell’Associazione Valle Bormida Pulita, stavano trattando con l’assessore all’ecologia: Elettra Cernetti.
Per noi non c’era posto, non erano preparati a riceverci e la sala del consiglio non era sufficiente ad ospitare 300 persone. «Nessun problema!», replicò Renzo Fontana, «se la gente che è fuori non può entrare, avete solo da uscire voi…».
Finalmente il grande portone si aprì e uno alla volta, dopo aver lasciato un documento in portineria, ci fecero accomodare nella Sala Del Centro. Ampie scale di marmo luccicante, enormi lampadari con infinite lacrime di cristallo, sculture in marmo rappresentanti personaggi storici.
Ci accomodammo in lussuose poltrone di velluto. Le poltrone erano morbide e comode, l’aria era tiepida, fuori dalle enormi finestre si vedeva la pioggia battente e le gocce che bagnavano i vetri, colorate dal riflesso dei lampadari, sembravano tante perle.
La povera Cernetti cominciò a parlare e parlare, a tratti sembrava volersi scusare con noi, poi incominciava ad esaltare il suo operato e i tanti sacrifici fatti per noi. La sua voce era tutto un piagnucolio ma il nostro problema era sempre raggirato e si capì ben presto che di ACNA e di Bormida inquinato ne sapeva ben poco, sia lei che gli altri Consiglieri regionali.
Seduto in quella comoda poltrona, inebriato da tante parole e con gli occhi puntati verso un grande lampadario con innumerevoli cristalli luccicanti, volai con il pensiero alla mia Valle e capii quanto fosse lontana.
A renderla lontana non erano solo quel centinaio di chilometri che dividevano la Sala Del Centro dal mio paese, ma era quell’ambiente surreale.
Da quella poltrona in quella lussuosa sala non si poteva sentire la puzza del Bormida, non si sarebbe sentita neanche se il fiume fosse passato sotto quelle finestre.
Fare entrare il nostro problema nella testa di quelle persone era come far entrare quell’enorme lampadario……su cui avevo gli occhi puntati……..nella saletta della mia classe di prima elementare.
Palazzo Lascari divenne frequentemente la nostra meta, vi ritornammo in diverse occasioni. Ricordo il 14 giugno 1988, quella volta c’era niente meno che il Ministro dell’ambiente, Giorgio Ruffolo.
Dopo neanche un mese, il 7 luglio 1988, tornammo....e davvero in tanti!
Quel giorno Via Alfieri era divisa a metà: da una parte noi piemontesi inquinati, a imprecare contro l’ACNA; dall’altra gli operai che difendevano con le unghie quel lavoro, gente dei nostri stessi paesi.
Tutti avevamo diritto di protestare, tutti avevamo la nostra ragione. Dalle 8 del mattino, sotto un sole cocente e un’aria afosa, in piedi sull’asfalto bollente, urlammo la nostra rabbia fino alle 17,30 del pomeriggio.
Preso dal caldo e dalla stanchezza mi accovacciai sul marciapiede e sognai ad occhi aperti quelle comode poltrone di velluto, in quei lussuosi saloni rinfrescati dall’aria condizionata. Sognai quegli enormi lampadari di cristallo e mi resi conto di quanto lontano fossero i nostri politici.

venerdì, settembre 16, 2005

cap. 7 una settimana calda

UNA SETTIMANA “CALDA”



Sabato 23 Luglio 1988 “LA NUBE”

«Una ragnatela di nubi nerastre vagava in cielo, impigliata nel campanile del paese».
Sono parole scritte da BEPPE FENOGLIO, nel libro “Il partigiano Johnny”.
In una calda e arida estate, quando l’afa ti toglie il respiro e ti rovina il sonno, alzarsi al mattino con una nube sopra la testa può sembrare un miraggio.
E’ quanto è successo agli abitanti di Saliceto quel sabato mattina, 23 luglio, del 1988: chi si è affacciato alla finestra o è uscito di casa verso le 8,30 del mattino ha visto il paese avvolto in una nuvola biancastra. Peccato però che invece di una boccata di fresco ossigeno, quella nube portava con se anidride solforosa.
Molte persone uscendo da casa hanno cominciato a tossire e sentire sintomi di vomito con un groppo in gola che toglieva il respiro. All’ufficio comunale sono incominciate ad arrivare telefonate di abitanti spaventati, in cerca di spiegazioni. Ma la strana nube aveva colto di sorpresa tutti.
Solo all’ACNA sapevano di una fuga di anidride solforosa dal reparto dove si fabbricava l’Oleum (acido solforoso arricchito di anidride solforosa, che serve come materia prima per preparare il Betanaftolo, l’acido Gamma, l’acido Tobia ).
Ma all’interno della fabbrica, invece di avvisare la popolazione del pericolo che stava correndo, si cercò di capire cosa e come fosse successo quell’incidente, in modo da poter rimediare al danno senza che nessuno se ne accorgesse.
Era un periodo difficile per la fabbrica chimica: era di quei giorni, infatti, la notizia che il Ministro dell’ambiente Ruffolo voleva chiuderla per sei mesi, mancava solo la firma del Ministro della sanità.
Quella nube capitò proprio nel momento meno opportuno per l’ACNA e qualcuno arrivò anche a pensare che fossimo stati noi “ambientalisti piemontesi" a sabotare l’impianto.
A Saliceto l’allarme durò un paio di ore e la popolazione fu avvisata da un impiegato del comune che, passando con un pulmino fornito di megafoni, invitò la popolazione a restare chiusa in casa in attesa che la nube si estinguesse.
Nella bassa valle Bormida l’allarme arrivò verso le 11: a Cortemilia un centinaio di persone si riversò nella piazza del Municipio per saperne di più. Il sindaco Dessino si mise in contatto con la prefettura e la gente in piazza improvvisò un’assemblea.
Paura, rabbia e sete di notizie, che nessuno però sapeva dare.
Presto l’assemblea si trasformò in manifestazione. Arrivò ancora gente, anche dalla bassa valle, e alle ore 13 la statale 29 che porta ad Alba era bloccata. Infine verso le 15 si formò un corteo di macchine in direzione di Cengio.
Ad ogni paese il serpentone di macchine si allungava e arrivati a Saliceto si fermò nella piazza davanti al Comune.
Io che quel mattino mi ero alzato alle 4 e avevo fatto il primo turno, non ce la facevo più dal sonno ed ero l’unico a vedere ancora la nebbia sul paese……ma in realtà il cielo era tornato nitido e il sole bruciava sulle nostre teste.
Parcheggiate le macchine in piazza, ci raggruppammo sulla statale e iniziammo a camminare in direzione di Cengio. Camminammo così, senza una fissa meta e senza un programma. Tutti sapevamo che il mostro da abbattere era a Cengio, ma nessuno sapeva come, quando e in che modo.
Tutti dicevamo la nostra opinione ma nessuno dava ordini, così vagammo come un gregge senza pastore fino a ritrovarci sui binari della ferrovia, alla piccola stazione ferroviaria di Saliceto.
Con noi c’era anche un gruppo di Anarchici, che in quei giorni si trovava in campeggio nella nostra valle…...era visto da tutti noi con un po’ di diffidenza e, mentre loro si fumavano qualche spinello davanti agli occhi vigili dei carabinieri, noi seduti sui binari decidemmo le mosse da intraprendere per l’indomani.


Domenica 24 luglio 1988 “ 5.000 BIRO PER UNA FIRMA “

Volevamo andare a Cengio ma ci avevano avvertito: «si arriva fino alle porte di Cengio, non un metro più in là ».
E così è stato.
Non abbiamo fatto alcuna resistenza.
All’indomani della nube tossica, partimmo da Cortemilia con non meno di 500 macchine e risalimmo la valle fino a Cengio.
A Pian Rocchetta, proprio sul confine tra Piemonte e Liguria, la statale era bloccata da un cordone di poliziotti.
Cominciò allora un lungo e difficile patteggiamento tra noi valligiani e le forze dell'ordine ma, visto che era impossibile varcare quel “confine“, ci accordammo di far entrare in Cengio una nostra delegazione formata dal Sen. Visca e da due sindaci: Topia di Perletto e Balza di Acqui Terme, i quali entrarono col preciso scopo di parlare con il consiglio di fabbrica.
Intanto, sul confine, la gente continuava ad arrivare e col passare delle ore cominciammo ad innervosirci.
Non mancavano però opinioni e proposte: «Ruffolo (Min. dell’ambiente) è pronto a chiudere l’ACNA per sei mesi, manca solo la firma del Min. DONAT - CATTIN» disse una voce al megafono, che continuò «perché non andiamo tutti assieme a portargli una biro, in modo che possa firmare il decreto?».
A quelle parole, sul piccolo palco improvvisato su di un furgoncino, incominciarono ad arrivare decine e decine di biro. E fu a quel punto che Renzo Fontana fece la sua proposta: «Oggi qui siamo in tanti, ma dobbiamo sensibilizzare di più gli abitanti del basso Piemonte, perché non andiamo adesso in corteo per le vie di Acqui?»
Come risposta ci fu un lungo e caloroso applauso, e nel giro di pochi minuti ci si avviò verso la bassa valle, in un lungo serpentone di auto, moto e furgoni.
La statale 339 diventò a senso unico, viaggiammo in doppia fila da Cengio a Bistagno, strombazzando e costringendo chi viaggiava in senso contrario a fermarsi.
Ci diedero una mano le gazzelle della polizia che sbucavano fuori da tutte le parti, a sirene spiegate.
C’erano gazzelle davanti e dietro al corteo, ad ogni incrocio.
Per una volta ci sentimmo i padroni di tutta la valle, ed io, sulla mia VISA rossa, ogni volta che intravedevo il Bormida o lo fiancheggiavo, mi sentivo orgoglioso….perché mi stavo battendo per lui, per la sua salvezza……
«Stai tranquillo» sussurravo a bassa voce, «non mollerò finché non vedrò le tue acque ridiventare chiare come non le ho mai viste e vedrò sul tuo fondo ogni razza di pesci. Ritornerò a giocare sulle tue sponde, anche se non più bambino. Mi fermerò a sentire la tua voce che non sarà più un lamento ma un allegro cantico».
I due amici che erano in macchina con me mi guardavano stupiti di quel discorso, ma era evidente che la pensavano esattamente come me.
Quando ci fermammo con le auto presso la stazione ferroviaria di Acqui demmo inizio ad un lungo corteo a piedi per le vie principali della cittadina. Al nostro passaggio la popolazione usciva sul balconi e dai bar, a sentire le nostre invocazioni: «una biro per il ministro Donat - Cattin………una biro affinché il ministro possa firmare il decreto che prevede la chiusura dell’ACNA per sei mesi…..».
Quelle erano, in linea di massima, le parole che urlavamo per le vie di Acqui, ma non tutti conoscevano il nostro problema. Qualcuno si stupiva di quel corteo, altri ci criticavano, ma da tutte le parti piovevano biro.
C’erano biro a sufficienza per firmare tutti i decreti accantonati a Roma e anche per scrivere i cento e più anni di ingiustizie subiti dalle nostre valle.
Il corteo finì in Piazza della Bollente, dove presero la parola, tra gli altri, il sindaco di Perletto e il sindaco di Acqui Terme.


Lunedì 25 luglio 1988 “Alba, consegna delle biro “

Alba, bella e ricca cittadina ai piedi delle Langhe, è un po’ la nostra capitale. Lì ci riversiamo per i nostri acquisti, per vendere i prodotti della campagna, per lo svago e sopratutto per il lavoro. Sono tanti infatti i “Langhet” (così sono chiamati i nostri valligiani) che lavorano ad Alba.
Essendo grande e ricca, Alba è anche potente sul piano politico e il ministro Donat -Cattin aveva un suo ufficio in viale Vico.
Dopo aver raccolto migliaia di biro la sera prima ad Acqui partimmo quel lunedì, in prima serata, formando un corteo di macchine con destinazione Alba: lì avremmo consegnato al sig. Ministro l’originale regalo.
Non era nel nostro stile fare quell’importante consegna in punta di piedi, così ripetemmo l’esperienza del giorno precedente.
Non eravamo in tanti, ma a sufficienza per farci notare e sentire.
Ci addentrammo a piedi per Via Maestra, Piazza del Duomo e tutte le vie principali del paese. Ad Alba, quasi tutti conoscevano il nostro problema e ci sentimmo in mezzo a tanti amici.
Tanti si aggiunsero a noi, cosicché il corteo divenne sempre più consistente e anche qui, da ogni parte, si aggiunsero biro alla nostra raccolta.
Quando arrivammo dietro al Duomo, in Piazza Mons. Grassi, un gruppetto di persone si presentò in modo composto e educato alla porta di Mons. Nicolini.
Il Vescovo li ricevette gentilmente e si dimostrò molto ben documentato sulla situazione della nostra valle e sulle conseguenze dell’ACNA.
Era uscito da pochi giorni, infatti, un documento comune firmato da un gruppo di parroci e tre vescovi, a conclusione di una riflessione sul problema.
Il Vescovo ci illustrò il suo punto di vista sul contenuto del documento ed ebbe parole di comprensione e conforto per noi.
Mentre parlava tirò fuori dal taschino una penna luccicante colore oro, che andò ad arricchire la nostra collezione.
Dal corteo si alzò un caloroso “Grazie!“ per il Monsignore, dopodichè virammo in direzione di Piazza Savona, per raggiungere l’ufficio del Ministro della sanità.
Oramai si era fatto tardi e non volevamo passare come dei disturbatori della quiete pubblica.
Le circa 5000 biro furono deposte in tre scatoloni di cartone e tre bambini, accompagnati dalle forze dell’ordine, portarono il singolare dono al primo piano del condominio e le depositarono sull’uscio chiuso dell’ufficio del Ministro.
Nella mia immaginazione ho rivisto quel Ministro, austero, prepotente, autoritario e maleducato che avevo conosciuto a Bossolasco davanti alla sede della comunità montana, e già me lo immaginavo, alla vista di quelle scatole, ordinarne lo sgombero con lo stesso tono prepotente che aveva avuto con noi a Maggio.
Terminò così quella terza giornata consecutiva di protesta, ma purtroppo non vi era ancora tempo per riposare.
Ci salutammo tutti, fissando l’appuntamento per l’indomani a Cortemilia alle 20.30 nei locali della sagra.
Lasciammo la cittadina di Alba tutti consapevoli che nessuna di quelle biro sarebbe stata usata per firmare il decreto della chiusura dell’ACNA, ma eravamo ugualmente contenti perché avevamo scritto un’altra pagina di storia. In quei tre giorni di proteste avevamo fatto conoscere il nostro problema a gente nuova, ad Acqui e ad Alba, e ora potevamo contare su qualche amico in più.


Martedì 26 Luglio 1988 “ MUSICA, ATTESA E RABBIA “


L’appuntamento era per le 20,30 a Cortemilia, nel cortile dell’ex convento Francescano. Avevamo deciso di passare una serata diversa, in allegria, con musica e canti e per noi si sarebbe esibito “Tito Schipa junior.“
Dopo tre giorni di manifestazioni da un angolo all’altro della nostra valle, sembrava una buona idea trovarsi tutti assieme in un clima di festa. La gente era quella dei giorni precedenti, volti ormai noti, altri appena visti, persone di ogni età e di ogni livello sociale. Canti, balli, allegria, tutti si sforzavamo di essere spensierati, godendo assieme alla musica quel po’ di fresco che la serata offriva. Le note amplificate del pianoforte si diffondevano per buona parte del paese, così, anche chi si trovava a passeggiare lungo il viale alberato di centenari tigli, poteva essere partecipe di quell’atmosfera di festa.
Erano quasi le 22 e la gente continuava ad entrare in quel cortile, a piccoli gruppi, e prima di occupare i posti a sedere, cercava notizie. Era diventata una parola d’ordine ed era sulla bocca di tutti: «a Roma, cosa hanno deciso?».
A Roma, infatti, era in corso una riunione interministeriale tra il ministro Ruffolo, Donat - Cattin, Battaglia (industria) e il presidente del consiglio on. De Mita.
L’incontro era in corso già dal pomeriggio e da esso sarebbe dovuto scaturire un accordo per la chiusura provvisoria di sei mesi dell’ACNA, periodo in cui, secondo Ruffolo, si sarebbe provveduto alla messa in sicurezza della fabbrica chimica.
Ma da Roma ancora nessuna decisione, la riunione era ancora in corso e l’intesa sembrava lontana.
Non bastavano le note di Tito-Schipa junior per farci dimenticare il problema.
Più passava il tempo e più la domanda si faceva insistente: «a Roma cosa stanno facendo?».
Per me la festa era finita, stava infatti per scadere il tempo che mi ero concesso e alle ore 22 dovevo proprio andare a lavorare.
Purtroppo, però, la festa finì presto per tutti: da Roma arrivò la notizia che la riunione interministeriale era stata rinviata senza arrivare a nessun accordo.
L’annuncio fece subito il giro del locale e tutti cominciarono a bisbigliare tra loro formando campanelli di gente. In ogni volto si leggeva lo sconforto, la sfiducia nelle istituzioni, la rabbia per tanta fatica e tempo sprecato in quei caldi giorni d’estate. Dopo quella notizia, le note dal palco stentavano ad arrivare alle orecchie della gente, girovagavando a vuoto come farfalle impazzite intorno ad un lampione acceso.
La notizia del rinvio, invece, si espanse per tutta la valle: da Cortemilia a Saliceto, da Saliceto a Bistagno.
La festa comunque continuò e il cortile del convento finì per riempirsi e continuarono ad arrivare persone.
Quando Tito-Schipa salutò il pubblico con il suo ultimo brano, il campanile della vicina chiesa di S. Pantaleo batté un unico tocco, era l’una dopo la mezzanotte, la festa era terminata e tutti si riversarono in strada dove si era già formato un piccolo corteo di macchine. Il corteo in poco tempo si allungò, facendosi rumoroso: incominciarono i soliti slogan mentre i megafoni informavano la popolazione.
La Cortemilia che già dormiva si svegliò, la gente prese a scendere in strada ammassandosi in Piazza Savona. E’ lì che nacque l’idea di andare ad Alessandria, subito, in prima notte.
La proposta venne approvata con un applauso: cominciò così il quarto giorno di protesta.
La strada per Alessandria è lunga e il serpentone di macchine in ogni paese faceva il giro per le vie del centro, informando e svegliando i suoi abitanti.
Alle 4 del mattino il corteo arrivò ad Alessandria, in Piazza Della Libertà, proprio davanti alla sede della Prefettura e della Provincia. Lì, ad attenderlo, vi era già un consistente schieramento di forze dell’ordine e, nonostante l’ora “strana”, una nostra delegazione venne ricevuta dal vice prefetto, dal vice sindaco e dall’assessore all’ambiente di quella città.
In quell’incontro venne ribadita la richiesta di chiusura dell’ACNA, sottolineando la delusione per la mancata decisione dei ministri riuniti a Roma la sera prima.

Mercoledì 27 luglio. MANIFESTAZIONE AD OLTRANZA

Dopo l’incontro con il vice prefetto Piazza della Libertà è rimasta occupata, nessuno ha trovato un motivo abbastanza valido per abbandonare la manifestazione, almeno fino a quando non fossero arrivati i rinforzi dall’alta valle.
A Cortemilia intanto, mentre stava per incominciare una nuova giornata lavorativa, una macchina del comune girava con i megafoni per le vie del paese informando la popolazione della situazione creatasi nella notte ad Alessandria ed invitava a portare solidarietà e rinforzi ai compagni che erano laggiù dalla notte. Alcuni negozi, appena aperti, riabbassarono le serrande, officine e laboratori rimasero semideserti.
Ad Alessandria, i primi manifestanti che avevano girovagato tutta la notte poterono fare ritorno a casa perché sostituiti dai compagni.
Nella sede della Provincia, per tutta la giornata si svolsero incontri con amministratori comunali, provinciali e regionali, sempre in contatto con Roma, dove era ripresa la trattativa.
Quel mercoledì 27 fu un giorno difficile per tutti.
Non mancarono alcuni blocchi ferroviari e disagi per la circolazione. Purtroppo, anche in quel caso, ne ebbero disagio delle persone che non avevano colpa alcuna, ne eravamo tutti consapevoli, ma del resto cento anni di repressione, di inquinamento e di menzogne erano veramente troppi.
Non avevamo nessun’altra arma per farci sentire, così cercammo di spiegare le nostre ragioni alla popolazione disagiata, la quale capì e ci dimostrò solidarietà.
Dopo una giornata di manifestazione nella piazza centrale di Alessandria e dopo quindici ore di mediazioni, incontri, consultazioni nel palazzo della prefettura e della provincia, si decise di fare ritorno nei nostri paesi. Il sindaco si era detto disposto a dimettersi assieme ai suoi colleghi pur di ottenere la chiusura dell’ACNA e la Regione si era offerta di mettere a disposizione vari pullman e vagoni ferroviari, per andare a Roma a manifestare davanti al parlamento.


Giovedì 28 luglio LA CHIUSURA BEFFA.

Non erano ancora suonate le 9 di mattina che già uscivo dalla farmacia di Cortemilia, la mia Visa rossa parcheggiata dall’altra parte della via, sotto i grandi alberi di tiglio che ancora profumavano con i loro ultimi fiori appassiti, confondendo il proprio odore con la puzza acre del Bormida che lì scorreva, viscido e silenzioso.
Percorsi a piedi un tratto del viale per infilarmi nella “puntina” di ferro che attraversa il fiume. Camminai fissando lo sguardo dritto davanti a me, senza abbassare la testa. Non volevo incrociare con gli occhi quel fiume per cui tanto avevo lottato inutilmente. Sentivo ancora sulle spalle il peso delle ultime proteste, le ore di sonno perse. Avevo ancora nelle orecchie gli slogan e le urla contro quella fabbrica che avvelenava la nostra bella valle.
Affacciatomi sulla Piazza Oscar Molinari, vidi camminare verso di me un uomo col passo stanco e con la barba di tre giorni. Era un amico, non conoscevo il suo nome, non sapevo da che paese venisse, ma era un amico. Non sapevo nulla di lui, quale lavoro, quale idea politica, però era un amico.
L’avevo visto sui binari della ferrovia di Saliceto quel sabato della nube, l’ ho rivisto a Pian Rocchetta alla domenica, poi in corteo per le vie di Acqui Terme, l’ ho visto ancora lunedì sera davanti all’ufficio del ministro Donat - Cattin, c’era anche lui martedì sera al concerto, e per ultimo ha lasciato Piazza della Libertà ad Alessandria. Incrociandoci, ci salutammo con un cenno del capo, poi lui tornò sui suoi passi e mi parlò per primo. A pochi passi da noi, nel pianterreno del vecchio tribunale, c'era una vecchia porta con un foglio di carta appeso e una matita che penzolava legata con uno spago. Era la sede della nostra associazione: “Rinascita Per La Valle Bormida “.
Su quel foglio vi era un parziale elenco di nomi e, mentre l’amico sconosciuto mi dava le ultime notizie arrivate nella notte dalla capitale, parecchie persone si avvicinavano alla vecchia porta e scrivevano il proprio nome, allungando sempre più quella lista. Era la prenotazione per un posto sul pullman per Roma, la partenza era fissata per quella sera stessa.
Nell’incontro terminato la sera precedente fra i tre Ministri e il Presidente del consiglio, erano arrivati all’accordo di chiudere l’ACNA per quarantacinque giorni. Quella notizia era sulla bocca di tutti e da tutti era vista come l’ennesima beffa.
Quarantacinque giorni di chiusura per risanare una fabbrica che inquina da oltre un secolo……non bastava essere ingenui per crederci…..
«Una chiusura di pochi giorni ad Agosto è semplicemente una chiusura per ferie», era la frase più diffusa sulla bocca di tutti.
A Gorzegno, nel mio paese, le persone che volevano scendere a Roma si facevano segnare in comune. A mezzogiorno quell’elenco era veramente breve, erano pochi ad essere prenotati, ma alla sera sul piazzale della chiesa, sembrava una festa. Erano veramente in tanti: Valerio, Emma, Piero, Giovanni, Renzo…tutti amici.
Questi erano amici di cui sapevo proprio tutto, conoscevo i loro nomi, le loro famiglie e il loro lavoro, sapevo il sacrificio che stavano per compiere. Erano pronti a passare la notte insonne e una dura giornata nella torrida Roma, davanti al parlamento, in piedi e controllati a vista da poliziotti, bloccati da transenne in ferro.
Sarei voluto tanto salire anch’io su quel pullman pieno di gente allegra con l’aria spensierata e la rabbia nel cuore.
Essere rimasto a terra mi fece sentire un traditore, seguii con lo sguardo quel pullman arrampicarsi su per la salita per raggiungere la statale, e poi lo vidi sparire sotto la galleria lasciandosi dietro il suono della sua tromba.


Venerdì 29 luglio

Chi è rimasto in valle Bormida ha trovato una valle più desolata e monotona del solito: a Cortemilia il mercato era stato cancellato, buona parte dei negozi era chiusa, molte delle piccole aziende non avevano aperto le serrande.
Per chi era rimasto in valle, gli occhi erano puntati su Roma.
I quotidiani e i telegiornali parlavano di ventidue pullman e tre vagoni straordinari scesi a Roma per dire “NO“ all’ACNA, accompagnati da trentaquattro sindaci e alcuni assessori provinciali e regionali. Per i nostri amici è stata una giornataccia quella trascorsa davanti a Montecitorio, ad urlare la propria rabbia, con davanti ancora le lunghe ore di viaggio per il ritorno.
Per alcuni di loro era il settimo giorno consecutivo di protesta.
Stanchi e delusi, con poche speranze nel cuore, arrivarono in Piazza Savona nella Cortemilia deserta.
Ad attenderli, uno striscione lungo tre terrazzi con su scritto a grandi lettere: «LA VALLE BORMIDA VI RINGRAZIA».
Parole semplici ma significative, che bastarono ad alleviare un po’ la stanchezza e lo spirito dei nostri amici.

giovedì, settembre 15, 2005

cap. 8 il nostro giornale

IL NOSTRO GIORNALE

Dopo la movimentata e calda settimana di luglio, che tolse il respiro fra caldo, rabbia, lavoro e proteste giornaliere, finalmente arrivò il periodo delle ferie e ne approfittai per trascorrere qualche giorno in tranquillità con la famiglia sulle montagne delle Dolomiti, nella bella valle del Cadore.
Eravamo ai primi di Agosto: l’aria fresca e i paesaggi da favola di quella vallata mi fecero dimenticare presto la stanchezza e lo stress del lavoro in fabbrica.
Lunghe passeggiate su per quei verdi prati, fin dentro alle pinete, formate da fitti abeti, alti e ritti verso il cielo. Poi ancora su, fino ad arrivare alla nuda montagna, con la sua roccia color rosa pallido. Ogni giorno potevo scegliere un nuovo itinerario, i luoghi erano vere oasi di pace e un inno alla natura.
Una mattina mi trovai ai piedi del monte Peralba e la sua cima illuminata dal sole fu uno spettacolo che mi costrinse a fermarmi, per meglio contemplare.
Sotto ai miei piedi scorreva un rigagnolo: era il Piave alla sua sorgente.
Non potei osservarlo senza andare con il pensiero indietro nella storia, alle battaglie e ai morti che quelle limpide acque avevano visto in passato.
Per un istante tralasciai quel paradiso che mi circondava, per addentrarmi nei ricordi di quello che avevo studiato sui libri di storia e in quelli che avevo sentito dai miei vecchi.
Così, riflettendo sulla storia di quel fiume, il mio pensiero tornò al Bormida, che avevo lasciato nero e puzzolente come sempre.
Anche il Bormida aveva la sua triste storia da raccontare e dei morti da ricordare.
Quando partii per quella vacanza, l’Acna era chiusa. Per la prima volta nella sua secolare storia l’Acna era chiusa per risanamento, una chiusura di 45 giorni, voluta dal Ministro all’ambiente Ruffolo. Nessuno di noi valligiani s'illudeva che, in un così breve periodo, si risanasse una fabbrica che vomitava veleni da oltre cento anni.
Mancavo dalla mia valle ormai da sette giorni ed ero ansioso di avere notizie. Ogni mattina compravo “La Stampa”, con la speranza di trovare un trafiletto al riguardo, ma, mancando le pagine locali di “Cuneo e provincia”, era raro trovare un articolo sulle pagine nazionali.
Sperimentai così la sete di notizie e compresi l’importanza dell’informazione.
Mi ronzava per la testa, quello che Renzo Fontana andava dicendo da mesi: «dobbiamo crearci un giornale nostro». Renzo era un giornalista di professione, era anche lui di Gorzegno, e, come me, aveva avuto padre e nonno in lotta sin dagli anni cinquanta per salvare il fiume. Renzo si era laureato, aveva lavorato a Genova come giornalista, ed era tornato nella sua terra, che amava, per restarci.
Si tuffò anche lui nella lotta contro l’Acna e in breve tempo ne divenne un attivista, sempre in prima linea.
Era un ottimo trascinatore e sapeva tirarsi fuori da ogni situazione, anche la più difficile, infondendo fiducia a chi gli stava vicino: «Un giornale tutto nostro, un giornale della gente per una corretta informazione». Erano queste le parole di Renzo, era quello il suo obiettivo, tutti ne condividevamo l’utilità e lo vedevamo come un sogno....e come tale difficile da realizzare.
Al ritorno dalle ferie, risalii la mia valle da Alessandria fino a Gorzegno.
Volevo vedere il Bormida con la speranza di vederlo migliorato in quei pochi giorni di chiusura dell’Acna. Così, arrivato a Cortemilia, accostai lungo la statale che costeggia il fiume.
Non era cambiato niente: il fiume mi sembrava ancora più nero di quando l’avevo lasciato. Feci due passi con la famiglia entrando in un bar, ebbi modo di parlare ed essere informato sugli ultimi sviluppi.
Altro che ferie! In quella tormentata valle, sembravo io l’unico ad aver fatto le ferie. Tante erano le novità e le iniziative in programma: i sindaci minacciavano le dimissioni e una nuova manifestazione a Cengio era in programma per l’11 settembre.
Quell’11 settembre eravamo 8000 persone ammassate a Cortemilia. Il Questore ci aveva vietato di manifestare a Cengio, così da Cortemilia proseguimmo e ci fermammo al confine, dove potemmo ammirare l’Acna in tutto il suo squallore. Nessuno di noi tentò di forzare il cordone di poliziotti: quello era il nostro confine, sempre più difficile da oltrepassare. Oltre quel cordone di polizia era ancora Italia, ma noi non potevamo arrivarci.
Quarantacinque giorni passano in fretta, così in un baleno arrivammo al 19 di Settembre, data in cui l’Acna riapriva i cancelli.
Tutta la valle si era attivata affinché questa riapertura non avvenisse o almeno fosse rinviata, ma non vi fu ragione.
Quel lunedì mattina del 19 settembre, mentre la fabbrica riapriva i battenti, le campane di Gorzegno e quelle di quasi tutti i paesi della valle Bormida, suonarono a morto.
In quei tocchi lenti e gravi si leggeva tutta la tristezza di una valle che stava morendo e si rendeva omaggio a tutti gli operai dell’Acna morti di cancro.
Nel frattempo, alla piccola stazione di Cengio, scesero dal treno tredici persone della nostra associazione, imbavagliati con foulard e con le mani legate da fazzoletti.
Si fermarono appena fuori dalla stazione, in silenzio e composti. Presto nella piazzetta davanti a loro si formò una piccola folla che incominciò ad insultare e schernire pesantemente i nostri amici.
I tredici, imbavagliati e con le mani legate, non fecero reazione alcuna.
Uno di loro parlò con i giornalisti intervenuti e consegnò loro un comunicato stampa, con il quale l’Associazione Rinascita ribadiva il profondo dissenso al piano di risanamento presentato dall’Acna. Nel frattempo un fischio, alzatosi dalla vicina stazione, segnalava l’arrivo del treno e i nostri eroi vi salirono compostamente, mentre dall’altra parte della strada gli insulti e le minacce si facevano sempre più pesanti.
Quella sera, nella piazzetta davanti alla sede dell’associazione, ci trovammo numerosi a vedere i filmati, a onorare e ringraziare i nostri tredici valorosi rappresentanti e a scambiarci commenti e proposte per i giorni a venire.
Il nostro calendario era sempre ricco di impegni: tra le cose più importanti a breve termine, vi era la visita a Cuneo del Presidente della repubblica Francesco Cossiga: era un’occasione per farci sentire e spiegare direttamente il nostro problema.
A Cairo Montenotte, in quei giorni, si svolgeva il finale del processo a tre ex dirigenti dell’Acna. Alcuni dei nostri sindaci avevano in quei giorni dato le dimissioni e altri minacciavano di farlo.
Il viaggio a Cuneo, per incontrare il presidente Cossiga, mi deluse un po’. Non che mi aspettassi di veder risolti i nostri problemi ....la fiducia nelle istituzioni l’avevo già persa….. ma rimasi disgustato dal modo in cui fummo accantonati in disparte e tenuti a bada con transenne, come animali pericolosi, mentre le auto blu del Presidente scortate da poliziotti in alta uniforme, attraversavano le più lussuose vie di Cuneo.
Il processo di Cairo ai tre ex dirigenti, invece, lo seguii con grande interesse. Le arringhe fatte dagli avvocati dell’Acna, inconfondibili in aula per quelle facce rese ancor più pallide dalle loro toghe ner, e l’emozione del giorno della sentenza.
Quel giorno ho speso bene e senza rimpianti il mio giorno di ferie.
E’ stata una mattinata di preoccupante attesa, poi l’intervallo durante la camera di consiglio e, verso le ore 16, la storica sentenza.
Mentre aspettavamo che il pretore uscisse dalla camera di consiglio, un brivido di freddo attraversò il mio corpo pensando al processo di trent’anni addietro, quando in un altro tribunale della Liguria si sostenne che gli scarichi dell’Acna erano fertilizzanti e condannarono 54 miei compaesani, tra cui mio padre e mio nonno.
Condannati perché avevano protestato per il fiume sporco.
Fortunatamente, quel pomeriggio a Cairo andò diversamente, il pretore Giuseppe Dagnino fu chiaro nel dichiarare che l’Acna era colpevole d'inquinamento e condannò i suoi ex dirigenti a pene variabili dai tre mesi ad un anno e tre mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali e dei danni arrecati dall’inquinamento.
Trattenni a stento un urlo di gioia e voltandomi, di fianco a me, vidi una donna con gli occhi umidi da lacrime di gioia e tante facce incredule e soddisfatte.

Domenica 20 Novembre 1988

La fabbrica in cui lavoravo da anni purtroppo aveva profanato la Domenica, questo mitico giorno della settimana, ma per gli abitanti dei nostri paesi era pur sempre un giorno di svago e di riposo.
Sulla piazza della Chiesa, la domenica mattina, si ritrovavano tutti: riuscivi a trovare le persone più solitarie e, inoltre, tutti quelli che in settimana dovevano allontanarsi dal paese per motivi di lavoro.
Era, dunque, quello un momento di comunicazione e scambi d’informazione.
Seguire tutte le varie assemblee e gli sviluppi della nostra lotta, era quasi impossibile anche per i più volenterosi, così la piazza nei giorni di festa era un’occasione in più per raccogliere le ultime notizie in proposito, tramite il passaparola e la lettura dei volantini affissi nell’apposita bacheca appesa ai piedi del campanile.
La domenica del 20 novembre 1988, appena arrivai in piazza della chiesa, notai che qualcosa di nuovo e importante era nell’aria.
Capannelli di persone qua e là stavano esaminando e discutendo con un giornale in mano. Mi avvicinai a loro e rimasi di stucco……era il nuovo giornale della valle Bormida. «Bravo Renzo!…ce l’hai fatta!» esclamai ad alta voce, anche se Renzo non era tra noi.
Girai e rigirai quel giornale tra le mani, come avessi trovato un tesoro. Avrei voluto leggerlo tutto di un fiato: gli articoli erano uno più interessante dell’altro, ma non riuscivo a gustarmelo così su due piedi, in piazza.
Volevo andarmelo a leggere in macchina, concentrandomi riga per riga, però non potevo andarmene così, volevo anche sentire i commenti della gente.
Già il titolo di quella testata colpiva tutti al cuore: «Valle Bormida Pulita». Quella frase la conoscevamo bene tutti, era diventata il nostro motto, il nostro simbolo della lotta. L’avevamo stampata su un’infinità di striscioni e cartelli e l’avevamo portata in giro per mezza Italia, da Torino a Genova, a Cengio, ad Alessandria………
Era apparsa su tutti i telegiornali quando a Castelnuovo Don Bosco è stato fermato il giro d’Italia, ed era sul parabrezza di tutte le auto, tramite adesivo colorato.
Adesso quella scritta «Valle Bormida Pulita» era lì, come titolo del nostro giornale, scritta a caratteri cubitali e con un fiore (invece del punto) sulla lettera “i“. Sulla sinistra del titolo una frase di B. Fenoglio e sulla destra una frase di A. Monti.
Sulla testata si leggeva inoltre: «anno 1 N° 1, periodico di informazione - autorizzazione del tribunale di Alba N° 467 del 7/11/1988». Seguiva data, indirizzo della sede, numero telefonico e fax.
Non era un semplice volantino ma un giornale a tutti gli effetti: un giornale di sole otto pagine ma tutte da leggere, non una riga di pubblicità in quel primo numero. Alcune notizie le sapevamo già: la condanna dell’Acna al processo di Cairo, le dimissioni di 19 sindaci...ma era comunque interessante leggerne i particolari.
Vi erano poi notizie clamorose, come il progetto di portare gli scarichi dell’Acna a Cairo, oppure a Savona, tramite un “tubo” e quello della costruzione di un inceneritore a Cengio sotto il falso nome di impianto per «ricuperi solfati».
La notizia bomba, quella che destò più scandalo e che a qualcuno ruppe le uova nel paniere, fu quella pubblicata in ultima pagina dal titolo: «Due miliardi per una fotocopia».
In quell’articolo era chiaramente documentato come l’Ansaldo, incaricata dal governo di fare un piano di risanamento per la valle Bormida, non aveva fatto altro che fotocopiare il piano fatto in precedenza per il bacino del Lambro – Olona - Severo, cambiandone semplicemente nomi e cifre.
Quella fotocopia, come diceva il giornale, era costata al Governo la bellezza di due miliardi di lire. Non fu un semplice articolo ma un vero e proprio documento e una clamorosa denuncia. Ma era tutto il giornale a non essere come gli altri, che si sfogliano e si buttano: andava letto, memorizzato e conservato.
Per poter essere libero è stato fatto senza finanziamenti alcuni e con tanto volontariato.
Da molti è stato temuto e criticato, per noi è stato di grande aiuto ed è giusto ricordare e ringraziare tutti quelli che vi hanno lavorato con coraggio, perdendoci dietro notti di sonno e danaro.

mercoledì, settembre 14, 2005

cap. 9 uno strano festival

UNO STRANO FESTIVAL

Una lampadina appesa ad un filo intrecciato che scende dal centro del soffitto di legno, un grosso ceppo che scoppietta nel camino, la vecchia madia ingombra di bicchieri sporchi di vino e un piatto di gallette in centro tavola.
Tutto intorno, seduti a cerchio, metà “bricco”, uomini, donne, bambini. Tanta gente ma un silenzio raccolto quando, da quella scatola di legno illuminata, uscivano le note di Claudio Villa con la sua “Buon giorno tristezza”.
Era l’anno 1955 ed era il primo anno che le note di un festival entravano fra quelle vecchie mura.
Da quella sera fino al Febbraio del 1989, quello era il quadro che mi si presentava davanti ogni volta che si parlava del festival di San Remo. Da quel 25 febbraio anche quel quadro si è rotto per lasciare il posto ad un altro, più triste e freddo.
Anche quella volta la colpa di tutto era quella maledetta fabbrica che, a poco a poco, ha distrutto i miei ricordi più belli lasciandomi il freddo dentro.
Quando salii sul pullman diretto a San Remo, quel sabato grigio di fine febbraio, sapevo benissimo che non mi sarei mai seduto su quelle poltrone di velluto nel teatro Ariston, ma non immaginavo neanche di arrivare a piedi, sotto la pioggia e controllato a vista da poliziotti armati di manganelli. Che le cose non andassero per il verso giusto si era capito da subito, appena saliti sul bus che ci aspettava sulla piazza di Gorzegno. Il nostro era l’ultimo pullman della vallata, quello più vicino alla Liguria, dalla quale ci separavano una quindicina di chilometri.
Quel giorno, però, per raggiungere la terra ligure abbiamo dovuto virare in direzione opposta e passare da Cortemilia, prendere la statale per Piana Crixia ed entrare in autostrada a Carcare.
Tutta quella strada per evitare la “frontiera” di Cengio ed evitare così inutili provocazioni. Quei chilometri in più non erano un grosso problema, era un atto di umiltà che avevamo accettato: il vero problema era un altro, era quel divieto emesso dal pretore d'Imperia che ci impediva di manifestare su tutto il territorio del comune di San Remo per l’intera giornata di sabato.
Fu così che ci trovammo tutti ammassati nella piazza più alta di Imperia, davanti alla questura.
Il paesaggio era ottimo, non c’è che dire, da una parte la collina verde di uliveti, aranci e mimosa, dall’altra l’immensità del mare e sotto di noi la città.
Nessuno di noi però era lì per ammirare il panorama, anzi, nessuno di noi voleva essere lì, la nostra meta era San Remo davanti all’Ariston, dove quella sera sarebbe stato pieno di telecamere e giornalisti.
Purtroppo il nostro obiettivo era lontano, sempre più lontano, eravamo prigionieri in quella maledetta piazza mentre alcuni nostri attivisti dell’associazione, con una delegazione di sindaci della valle, cercavano di trattare con il questore per far ritirare il divieto.
Quella piazza ci stava stretta, per noi che eravamo in millecinquecento, con ventidue pullman e una trentina di macchine.
Era ormai più di un’ora che scalpitavamo sulle mattonelle nell'attesa che si sbloccasse la situazione, e cominciavamo a essere stanchi e delusi.
Ci sembrava di avere tutto il mondo contro, dal questore alle forze dell’ordine, ai sindacati, e come se non bastasse, anche il cielo.
Verso le 17:30 infatti anch’esso se la prese con noi, versandoci addosso acqua a catinelle. I portici erano gremiti di gente e così tutti i bar della zona. Io mi allontanai da solo giù dalla discesa che attraversa il paese e scende verso il mare.
Entrai in un bar per un caffè, il locale era quasi vuoto, così cercai un tavolino vicino ad una stufetta a gas e mi accomodai.
I quattro clienti e il proprietario del bar stavano parlando tra di loro, in dialetto legure, e il discorso era proprio impostato sulla nostra manifestazione bloccata nel piazzale della questura.
Io finsi di non seguirli, ma cercai di capire quanto fossero informati sulla questione e quale fosse il loro punto di vista.
Sul più bello il barista puntò il dito verso di me e disse, abbastanza sicuro di sé: «tu devi essere uno di loro»……
Io, che proprio non mi aspettavo una domanda così diretta da uno sconosciuto, mi sentii come l’apostolo Pietro nell’orto dei Getsemani, quando di fronte ai soldati per tre volte rinnegò Gesù.
Nonostante io, piemontese, mi trovasi in terra nemica, non rinnegai la mia valle e i miei amici e non esitai a rispondere in modo austero: «Sì, sono uno di loro».
Mentre pronunziavo quelle parole, dalla porta d’entrata spuntò Walter, un amico, uno dei nostri e confesso che mi sentii più sollevato.
Il barista si dimostrò abbastanza informato e, pur condividendo i nostri obiettivi, cominciò a criticarci per il modo in cui portavamo avanti la nostra protesta.
Secondo lui con quelle manifestazioni pacifiche perdevamo solo tempo e danaro. A suo parere dovevamo passare alle manieri forti e, per dimostrare che non scherzava, disse apertamente: «procuratevi 500 milioni di lire in contanti, io vi presento delle persone che vi fanno l’Acna rasa al suolo, e se volete solo dare un segnale forte, vi bastano 50 milioni……».
Chi di noi non ha detto almeno una volta «ci vorrebbe una bomba!»?...…...però sono cose dette così, in un momento di rabbia, nessuno di noi l’ha mai pensato seriamente.
Invece quel barista non scherzava, ci accompagnò sulla porta e ci indicò un grande dipinto, vicino all’entrata, con il ritratto a mezzo busto di Mussolini.
Salutandoci ci disse ancora: «pensateci,…..non buttate via lo scontrino fiscale che sopra troverete il mio numero di telefono».
Confesso che rimasi sconvolto e quello scontrino lo stritolai nella mia tasca prima di raggiungere il mio gruppo.
Quando da un campanile lontano sentii battere la mezzanotte, noi camminavamo già in territorio Sanremese, una maratona lunga oltre quattro chilometri incominciata dalla periferia di Arma Di Taggia, dove fummo fermati nuovamente con i nostri pullman.
Una lunga e composta colonna formata da millecinquecento persone tra donne, uomini e bambini che marciavano a piedi sulla Via Aurelia, scortati da poliziotti armati di manganelli.
A cosa servissero quei manganelli, nessuno di noi riusciva a capirlo, eravamo un branco di povera gente, sfiniti, bagnati, umiliati con un solo obiettivo in testa: quello di arrivare davanti al teatro Ariston, dove stavano suonando le ultime note del festival e urlare la nostra canzone: «Vogliamo la vita in una Valle Bormida Pulita».
Quando finalmente arrivammo ad un passo dalla nostra meta, ecco di nuovo le transenne di ferro davanti a noi a sbarrarci la strada. Quelle barriere oramai le trovavamo davanti ovunque, ma noi che avevamo sulle spalle cento anni di umiliazioni, non ci abbattemmo più di tanto.
Da quella piazzetta in cui ci trovavamo, rinchiusi e sorvegliati a vista, si vedevano le luci del festival e il tempio della ricchezza.
A noi era negato anche l’accesso ai bar di quella piazza, in quelli potevano andare le signore in pelliccia, i vip o i normali turisti.
Noi non potevamo confondersi con gli altri, dopo sette ore di attesa e marcia sotto la pioggia avevamo un marchio inconfondibile.
Cantammo, anzi urlammo i nostri slogan da quella piazza, ma ormai la nostra voce era rauca.
Aspettammo con pazienza la fine del festival, dentro al teatro vi era un piccolo gruppo dei nostri che erano arrivati in treno da Imperia nel tardo pomeriggio. Quella piccola delegazione, dentro il festival, fece miracoli. Prima negoziarono con la Rai uno spazio televisivo (non in quella serata) in cambio di non disturbare il festival con colpi di scena. Poi, parlando con alcuni cantanti più sensibili, distribuirono cappelli e spille con il nostro simbolo «Valle Bormida Pulita».
Noi fuori riuscivamo ad avere saltuarie informazioni da qualche “Angelo Custode”, e anche se erano notizie frammentarie bastavano a tenerci su con il morale.
La prima buona notizia fu che Gino Paoli e il suo gruppo avevano cantato con il nostro distintivo appeso alla giacca.
Da un angolo della piazza dove eravamo prigionieri, ci si immetteva in una viuzza che costeggiava il retro del palazzo dove si svolgeva il festival.
Lungo quella stretta via erano parcheggiati alcuni furgoni di operatori Rai, con sopravarie apparecchiature elettroniche tra cui alcuni monitor dentro i quali scorrevano le immagini in diretta del festival.
Nonostante anche quella via fosse transennata, qualcuno di noi, a turno, riusciva a eludere la sorveglianza e intrufolarsi tra i furgoni, dai quali si riusciva a vedere qualche immagine e qualche nota proveniente dall’interno della sala. Da quella postazione si sentivano anche chiaramente gli slogan provenienti dalla nostra piazza.
Quel gruppo di operatori Rai, impegnati nelle riprese televisive, ci fecero pervenire un messaggio di solidarietà: «solidali con la vostra protesta, impegnati nella ripresa del 39° festival ma comunque vicini», e a seguire una trentina di firme.
Questo gesto di solidarietà, seppur semplice, ci diede un po’ di ossigeno per continuare, per resistere ancora un po’, fino a quando ci arrivò la notizia che i famosi cantanti Romina e Albano, piazzatisi poi al terzo posto, stavano cantando in diretta sventolando il nostro cappello con su scritto «Valle Bormida Pulita» e così pure i quattro del coretto avevano in testa quel nostro berretto.
Il nostro simbolo era entrato nelle case di mezza Europa, magari pochi sapevano il significato di quella scritta, ma per noi fu una grande conquista, e salimmo soddisfatti sui pullman che da ore ci aspettavano, per far ritorno nella nostra valle.
Un forte sobbalzo del pullman sulle rotaie di un passaggio a livello mi svegliò dal dormiveglia e aprendo gli occhi, vidi sotto di me le luci dell’Acna e i suoi fumi, che si alzavano lenti al cielo.
Pensai a quegli operai che avevano lavorato in quella fabbrica per tutta la notte, tra i veleni e la paura, mentre alcuni suoi delegati, sindacalisti e amministratori, erano comodamente seduti in quel tempio di ricchezza, tra organizzatori del festival e dirigenti di polizia.
Avrei desiderato tanto lanciare un messaggio a quegli operai, dirgli che io non avevo niente contro di loro, che tutti noi non avevamo nulla contro di loro e il nostro sogno era quello di lottare, fianco a fianco, contro i veri colpevoli: perché tutti, operai e valligiani, lottavamo per la nostra sopravvivenza ed entrambi eravamo usati per gli sporchi interessi di qualcuno.
Quei pensieri cominciavano a confondersi con le note di Albano e Romina e con quelle di Claudio Villa, rividi una vecchia cucina piena di gente, i bicchieri sporchi di vino e il fuoco che ardeva nel camino…………ma ecco che si accesero le luci e il pullman si fermò nella piazza dietro alla chiesa, Gorzegno dormiva beata.