mario bertola: diario e memorie

le memorie di mario e della sua lotta contro l' acna e per una valle bormida viva

mercoledì, settembre 14, 2005

cap. 9 uno strano festival

UNO STRANO FESTIVAL

Una lampadina appesa ad un filo intrecciato che scende dal centro del soffitto di legno, un grosso ceppo che scoppietta nel camino, la vecchia madia ingombra di bicchieri sporchi di vino e un piatto di gallette in centro tavola.
Tutto intorno, seduti a cerchio, metà “bricco”, uomini, donne, bambini. Tanta gente ma un silenzio raccolto quando, da quella scatola di legno illuminata, uscivano le note di Claudio Villa con la sua “Buon giorno tristezza”.
Era l’anno 1955 ed era il primo anno che le note di un festival entravano fra quelle vecchie mura.
Da quella sera fino al Febbraio del 1989, quello era il quadro che mi si presentava davanti ogni volta che si parlava del festival di San Remo. Da quel 25 febbraio anche quel quadro si è rotto per lasciare il posto ad un altro, più triste e freddo.
Anche quella volta la colpa di tutto era quella maledetta fabbrica che, a poco a poco, ha distrutto i miei ricordi più belli lasciandomi il freddo dentro.
Quando salii sul pullman diretto a San Remo, quel sabato grigio di fine febbraio, sapevo benissimo che non mi sarei mai seduto su quelle poltrone di velluto nel teatro Ariston, ma non immaginavo neanche di arrivare a piedi, sotto la pioggia e controllato a vista da poliziotti armati di manganelli. Che le cose non andassero per il verso giusto si era capito da subito, appena saliti sul bus che ci aspettava sulla piazza di Gorzegno. Il nostro era l’ultimo pullman della vallata, quello più vicino alla Liguria, dalla quale ci separavano una quindicina di chilometri.
Quel giorno, però, per raggiungere la terra ligure abbiamo dovuto virare in direzione opposta e passare da Cortemilia, prendere la statale per Piana Crixia ed entrare in autostrada a Carcare.
Tutta quella strada per evitare la “frontiera” di Cengio ed evitare così inutili provocazioni. Quei chilometri in più non erano un grosso problema, era un atto di umiltà che avevamo accettato: il vero problema era un altro, era quel divieto emesso dal pretore d'Imperia che ci impediva di manifestare su tutto il territorio del comune di San Remo per l’intera giornata di sabato.
Fu così che ci trovammo tutti ammassati nella piazza più alta di Imperia, davanti alla questura.
Il paesaggio era ottimo, non c’è che dire, da una parte la collina verde di uliveti, aranci e mimosa, dall’altra l’immensità del mare e sotto di noi la città.
Nessuno di noi però era lì per ammirare il panorama, anzi, nessuno di noi voleva essere lì, la nostra meta era San Remo davanti all’Ariston, dove quella sera sarebbe stato pieno di telecamere e giornalisti.
Purtroppo il nostro obiettivo era lontano, sempre più lontano, eravamo prigionieri in quella maledetta piazza mentre alcuni nostri attivisti dell’associazione, con una delegazione di sindaci della valle, cercavano di trattare con il questore per far ritirare il divieto.
Quella piazza ci stava stretta, per noi che eravamo in millecinquecento, con ventidue pullman e una trentina di macchine.
Era ormai più di un’ora che scalpitavamo sulle mattonelle nell'attesa che si sbloccasse la situazione, e cominciavamo a essere stanchi e delusi.
Ci sembrava di avere tutto il mondo contro, dal questore alle forze dell’ordine, ai sindacati, e come se non bastasse, anche il cielo.
Verso le 17:30 infatti anch’esso se la prese con noi, versandoci addosso acqua a catinelle. I portici erano gremiti di gente e così tutti i bar della zona. Io mi allontanai da solo giù dalla discesa che attraversa il paese e scende verso il mare.
Entrai in un bar per un caffè, il locale era quasi vuoto, così cercai un tavolino vicino ad una stufetta a gas e mi accomodai.
I quattro clienti e il proprietario del bar stavano parlando tra di loro, in dialetto legure, e il discorso era proprio impostato sulla nostra manifestazione bloccata nel piazzale della questura.
Io finsi di non seguirli, ma cercai di capire quanto fossero informati sulla questione e quale fosse il loro punto di vista.
Sul più bello il barista puntò il dito verso di me e disse, abbastanza sicuro di sé: «tu devi essere uno di loro»……
Io, che proprio non mi aspettavo una domanda così diretta da uno sconosciuto, mi sentii come l’apostolo Pietro nell’orto dei Getsemani, quando di fronte ai soldati per tre volte rinnegò Gesù.
Nonostante io, piemontese, mi trovasi in terra nemica, non rinnegai la mia valle e i miei amici e non esitai a rispondere in modo austero: «Sì, sono uno di loro».
Mentre pronunziavo quelle parole, dalla porta d’entrata spuntò Walter, un amico, uno dei nostri e confesso che mi sentii più sollevato.
Il barista si dimostrò abbastanza informato e, pur condividendo i nostri obiettivi, cominciò a criticarci per il modo in cui portavamo avanti la nostra protesta.
Secondo lui con quelle manifestazioni pacifiche perdevamo solo tempo e danaro. A suo parere dovevamo passare alle manieri forti e, per dimostrare che non scherzava, disse apertamente: «procuratevi 500 milioni di lire in contanti, io vi presento delle persone che vi fanno l’Acna rasa al suolo, e se volete solo dare un segnale forte, vi bastano 50 milioni……».
Chi di noi non ha detto almeno una volta «ci vorrebbe una bomba!»?...…...però sono cose dette così, in un momento di rabbia, nessuno di noi l’ha mai pensato seriamente.
Invece quel barista non scherzava, ci accompagnò sulla porta e ci indicò un grande dipinto, vicino all’entrata, con il ritratto a mezzo busto di Mussolini.
Salutandoci ci disse ancora: «pensateci,…..non buttate via lo scontrino fiscale che sopra troverete il mio numero di telefono».
Confesso che rimasi sconvolto e quello scontrino lo stritolai nella mia tasca prima di raggiungere il mio gruppo.
Quando da un campanile lontano sentii battere la mezzanotte, noi camminavamo già in territorio Sanremese, una maratona lunga oltre quattro chilometri incominciata dalla periferia di Arma Di Taggia, dove fummo fermati nuovamente con i nostri pullman.
Una lunga e composta colonna formata da millecinquecento persone tra donne, uomini e bambini che marciavano a piedi sulla Via Aurelia, scortati da poliziotti armati di manganelli.
A cosa servissero quei manganelli, nessuno di noi riusciva a capirlo, eravamo un branco di povera gente, sfiniti, bagnati, umiliati con un solo obiettivo in testa: quello di arrivare davanti al teatro Ariston, dove stavano suonando le ultime note del festival e urlare la nostra canzone: «Vogliamo la vita in una Valle Bormida Pulita».
Quando finalmente arrivammo ad un passo dalla nostra meta, ecco di nuovo le transenne di ferro davanti a noi a sbarrarci la strada. Quelle barriere oramai le trovavamo davanti ovunque, ma noi che avevamo sulle spalle cento anni di umiliazioni, non ci abbattemmo più di tanto.
Da quella piazzetta in cui ci trovavamo, rinchiusi e sorvegliati a vista, si vedevano le luci del festival e il tempio della ricchezza.
A noi era negato anche l’accesso ai bar di quella piazza, in quelli potevano andare le signore in pelliccia, i vip o i normali turisti.
Noi non potevamo confondersi con gli altri, dopo sette ore di attesa e marcia sotto la pioggia avevamo un marchio inconfondibile.
Cantammo, anzi urlammo i nostri slogan da quella piazza, ma ormai la nostra voce era rauca.
Aspettammo con pazienza la fine del festival, dentro al teatro vi era un piccolo gruppo dei nostri che erano arrivati in treno da Imperia nel tardo pomeriggio. Quella piccola delegazione, dentro il festival, fece miracoli. Prima negoziarono con la Rai uno spazio televisivo (non in quella serata) in cambio di non disturbare il festival con colpi di scena. Poi, parlando con alcuni cantanti più sensibili, distribuirono cappelli e spille con il nostro simbolo «Valle Bormida Pulita».
Noi fuori riuscivamo ad avere saltuarie informazioni da qualche “Angelo Custode”, e anche se erano notizie frammentarie bastavano a tenerci su con il morale.
La prima buona notizia fu che Gino Paoli e il suo gruppo avevano cantato con il nostro distintivo appeso alla giacca.
Da un angolo della piazza dove eravamo prigionieri, ci si immetteva in una viuzza che costeggiava il retro del palazzo dove si svolgeva il festival.
Lungo quella stretta via erano parcheggiati alcuni furgoni di operatori Rai, con sopravarie apparecchiature elettroniche tra cui alcuni monitor dentro i quali scorrevano le immagini in diretta del festival.
Nonostante anche quella via fosse transennata, qualcuno di noi, a turno, riusciva a eludere la sorveglianza e intrufolarsi tra i furgoni, dai quali si riusciva a vedere qualche immagine e qualche nota proveniente dall’interno della sala. Da quella postazione si sentivano anche chiaramente gli slogan provenienti dalla nostra piazza.
Quel gruppo di operatori Rai, impegnati nelle riprese televisive, ci fecero pervenire un messaggio di solidarietà: «solidali con la vostra protesta, impegnati nella ripresa del 39° festival ma comunque vicini», e a seguire una trentina di firme.
Questo gesto di solidarietà, seppur semplice, ci diede un po’ di ossigeno per continuare, per resistere ancora un po’, fino a quando ci arrivò la notizia che i famosi cantanti Romina e Albano, piazzatisi poi al terzo posto, stavano cantando in diretta sventolando il nostro cappello con su scritto «Valle Bormida Pulita» e così pure i quattro del coretto avevano in testa quel nostro berretto.
Il nostro simbolo era entrato nelle case di mezza Europa, magari pochi sapevano il significato di quella scritta, ma per noi fu una grande conquista, e salimmo soddisfatti sui pullman che da ore ci aspettavano, per far ritorno nella nostra valle.
Un forte sobbalzo del pullman sulle rotaie di un passaggio a livello mi svegliò dal dormiveglia e aprendo gli occhi, vidi sotto di me le luci dell’Acna e i suoi fumi, che si alzavano lenti al cielo.
Pensai a quegli operai che avevano lavorato in quella fabbrica per tutta la notte, tra i veleni e la paura, mentre alcuni suoi delegati, sindacalisti e amministratori, erano comodamente seduti in quel tempio di ricchezza, tra organizzatori del festival e dirigenti di polizia.
Avrei desiderato tanto lanciare un messaggio a quegli operai, dirgli che io non avevo niente contro di loro, che tutti noi non avevamo nulla contro di loro e il nostro sogno era quello di lottare, fianco a fianco, contro i veri colpevoli: perché tutti, operai e valligiani, lottavamo per la nostra sopravvivenza ed entrambi eravamo usati per gli sporchi interessi di qualcuno.
Quei pensieri cominciavano a confondersi con le note di Albano e Romina e con quelle di Claudio Villa, rividi una vecchia cucina piena di gente, i bicchieri sporchi di vino e il fuoco che ardeva nel camino…………ma ecco che si accesero le luci e il pullman si fermò nella piazza dietro alla chiesa, Gorzegno dormiva beata.