mario bertola: diario e memorie

le memorie di mario e della sua lotta contro l' acna e per una valle bormida viva

domenica, settembre 11, 2005

cap. 12 il presidio

IL PRESIDIO

Una capatina al bar del Circolo, un caffè, due parole con gli amici, giusto il tempo di cogliere le ultime sull’Acna di Cengio e poi via a letto perché all’indomani la sveglia era programmata per suonare alle quattro.
Era diventata un’abitudine, quasi una tappa obbligata, quella di passare al bar del Circolo per avere le ultime, in un momento in cui le notizie si rincorrevano da Cassine a Saliceto. Così, nella serata di mercoledì 19 aprile del 1989, non rinunciai a quel momento di ritrovo e d'informazione. Quando entrai, nel locale regnava la tranquillità più assoluta, due tavolini occupati da una partita a carte, una signora che faceva il solitario e un po’ di gente che osservava il gioco pronta a ridire e commentare.
Il discorso Acna quella sera non era ancora stato imbastito: mi avvicinai allora a Don Emanuele, il nostro parroco, che gestiva il circolo e che era sempre con noi nelle varie iniziative.
Domandai a Lui se c'erano “nuove”, e lui mi confermò quello che in parte già sapevo: da qualche giorno ormai, ed in orari diversi, un gruppetto di quattro o cinque giovani si alternavano e si recavano allo scarico dell’Acna. Là, con bottiglie e contenitori, facevano dei prelievi per portarli ad analizzare.
In pratica facevano il lavoro che avrebbe dovuto fare l'USL che, nonostante i vari solleciti da parte della nostra associazione, non aveva mosso un dito.
L’ultimo prelievo “clandestino” era stato fatto il giorno prima, martedì 18, da quattro attivisti i quali, camminando sul letto del fiume per raggiungere lo scarico, avevano notato delle tracimazioni d’acqua rossa uscire dal terreno, in prossimità dell’Acna.
Lasciai il bar verso le 23, vincendo la tentazione di una partita a carte: il discorso Acna per quella serata sembrava concluso.
Il mattino seguente, alle 4:30, attraversando la piazza del paese, non riuscivo a capire il perché le stesse macchine della sera prima fossero ancora lì, parcheggiate dietro alla Chiesa, davanti al circolo.
Tentai alcune ipotesi e prese sempre più piede in me la convinzione che qualcosa di nuovo doveva essere successo in valle.
Una prima spiegazione l’ebbi alle 13, quando arrivarono i miei colleghi del secondo turno. Le notizie non erano ancora abbastanza chiare, ma di sicuro si sapeva che la notte precedente, nei pressi dello scarico Acna, c'era stata una fuoriuscita di liquido inquinante.
Qualcuno parlò di incidente, qualcun altro era preoccupato per i nostri amici che la sera precedente erano andati sul luogo dell’accaduto. Una cosa era certa: nei pressi dello scarico c’era bisogno di gente.
Non sentii più la stanchezza nè il sonno per la levataccia, ormai sentivo solamente il desiderio di essere lassù, in quel luogo tanto triste dove il nostro caro fiume s’intrappolava in quei veleni e veniva privato di ogni sua forma di vita.
Alle porte di Cengio, scendendo giù per la stradina che da Pian Rocchetta porta al fiume, mi sentii assalire da una strana sensazione, un miscuglio di paura e di tristezza. Oltrepassai i palazzi abbandonati di Brignoletta e mi trovai in fondo alla discesa, nei pressi del ponte sul fiume Bormida: ai bordi della strada erano parcheggiate alcune auto e un cartello di cartone improvvisato, con sopra disegnata una freccia, indicava il punto in cui scendere la scarpata per raggiungere il fiume.
Nel letto del fiume camminai ancora un centinaio di metri controcorrente, tra sassi, rovi e pozzanghere.
Ormai ero certo di non sbagliare perché a terra intravedevo orme fresche ed erbaccia calpestata, segno evidente di un sentiero appena tracciato, e sentivo sempre più chiaro il rumore di una pompa e il vociare di persone.
Ero arrivato sul luogo dell’incidente.
Risalii il pendio che separa il letto del fiume dal suo greto, in quel punto il Bormida distava dal muro di cinta dell’Acna una trentina di metri.
Al mio arrivo, sentii addosso gli occhi di un gruppo di persone, le quali mi accolsero con calore, come si accoglie un amico che non si vede da tempo….anche se con alcuni di loro avevo parlato la sera prima.
Renzo mi accompagnò per una decina di metri, verso una grande buca scavata da una macchina operatrice. Al fianco della buca una pompa scoppiettante e malferma stava risucchiando una sostanza liquida, spingendola dentro alle mura della fabbrica.
Lo spettacolo che avevo davanti era raccapricciante: quel liquido rosso e schiumoso a chiazze rossastre che si rigirava all’interno di quella buca, mosso dal risucchio della pompa, mi metteva i brividi nelle vene.
Sembrava di avere davanti agli occhi una scena di un film dell’orrore.
L’odore che si sprigionava nell’aria mi viene indefinibile, ricordo che fu necessario mettermi un fazzoletto piegato sotto il naso per resistere un paio di minuti, ma poi dovetti allontanarmi velocemente.
Quella pompa insicura e traballante continuava a succhiare dentro la pozzanghera, ma il livello del ripugnante liquido rimaneva sempre lo stesso.
Quel liquido lo chiamavano “percolato” ed era acqua che, attraversando il sottosuolo dello stabilimento, si impregnava delle sostanze tossiche dei milioni di tonnellate di rifiuti ivi sepolti e le trascinava verso il fiume.
Mi allontanai qualche decina di metri da quell’orribile luogo, giusto per poter respirare e parlare con gli amici presenti.
Ebbi così modo di conoscere come erano andate le cose la notte precedente: mi spiegarono che la sera prima una telefonata anonima, partita da un operaio dell’Acna, avvertiva che subito fuori dalla fabbrica, verso il fiume, era successo qualcosa di grave. Quella notizia in breve tempo si sparse tra gli attivisti dell’associazione “Rinascita” e subito un gruppetto di amici partì risalendo la valle.
Paese per paese il gruppo si rafforzò e con l’aggiunta dei miei compaesani, clienti del Circolo Acli, il gruppo raggiunse le venti persone.
Venti coraggiose persone, tra cui due sindaci, Barabino di Terzo e Toppia di Perletto, pronti a raggiungere lo scarico dell’Acna a quell’ora di notte, per controllare di persona quello che avevano saputo dalla telefonata anonima.
Prima di avventurarsi al buio e sguazzare nel fiume, tra rovi e sassi, il gruppo aveva pensato bene di telefonare ai carabinieri e all' USL di Carcare, per sollecitare un sopralluogo. Quando, dopo tante difficoltà, il gruppo arrivò sotto le mura di cinta dell’Acna, si trovarono davanti quel triste e degradante spettacolo.
Non oso pensare quello che provarono, già sono rimasto scioccato io che ho vissuto quella scena alla luce del sole, figurarsi quei poveretti che sono arrivati al buio in quel posto tetro e maledetto ove tutto odora di morte.
La loro speranza era che arrivassero presto i carabinieri a prendere atto di quello scempio. I carabinieri non tardarono, ma invece di documentare l’inquinamento in corso, ritirarono i documenti a tutti i presenti e si portarono con loro nove persone.
Così in nove passarono la notte in caserma, in attesa di essere interrogati e i rimanenti furono invitati a passare in portineria dell’Acna, a ritirare i documenti sequestrati.
Da quel momento, però, quell'orrenda pozzanghera non fu mai lasciata sola e ancora al mio arrivo, dopo ormai 17 ore di costante veglia, si convenne che di lì non si doveva andare via, affinché nessuno in nostra assenza potesse fare sparire le prove.
«Prima o poi qualcuno dovrà venire a vedere», andavamo dicendo tutti, così si decise di organizzarsi facendo a turni e restare in quel posto per controllare a vista l’Acna.
A me venne in mente la mia tenda da campeggio a quattro posti, non sarà stata una grande soluzione, ma era pur un riparo per la notte che si avvicinava.
Andai subito a casa, arraffai tutto l’occorrente e con l’aiuto di Don Emanuele e di un altro amico, tornai sul luogo dell’incidente.
Il sole, unica fonte di vita in quel luogo grigio e malsano, aveva da un pezzo oltrepassato la collina di Brignoletta, così dovetti finire il lavoro di montaggio della tenda con l’aiuto di torce elettriche.
Finalmente, verso le 21, la tenda era sistemata e brillava con i suoi colori, portando a tutti noi presenti un raggio di speranza e di allegria.
Mi fermai un attimo a contemplarla e rivissi con lei alcuni momenti passati assieme: «cara la mia tenda che mi hai ospitato con la mia famiglia nei momenti più belli, sulle rive del Mar Ligure, nelle pinete della Toscana, sulla fine sabbia dell’Adriatico, sulle spettacolari conche del Gargano. Tu hai ospitato i miei figli che avevano pochi mesi, li hai protetti dal caldo e dalla frescura, tu fai parte della mia famiglia e ora ti lascio un grave e importante compito, ti sacrificherai per una giusta causa. Stanotte darai ospitalità a quattro persone che veglieranno con te quel mostro che da oltre cento anni distrugge la nostra valle».
Lasciai così, con quei ricordi nel cuore, quel posto infame e i miei amici.
Il primo giorno di “presidio all’Acna“ stava terminando ma le brutte sorprese non erano finite: quando arrivai nei pressi della stradina di Pian Rocchetta sentii sull’asfalto un fruscio di passi veloci, poi d’un tratto il silenzio e di nuovo passi al galoppo.
Era buio, la poca luce che filtrava dal cielo si inceppava sulla chioma degli alberi emanando lunghe e paurose ombre.
Mi guardai intorno, una cinquantina di metri a monte tre persone correvano inseguendo qualcuno. Nello stesso istante rombò un motore al massimo dei giri e ci fu uno stridore di gomme sull’asfalto: una macchina partì sgommando verso la statale, mancando per un soffio quelle persone in corsa.
Rimasi un attimo titubante e mi incoraggiai quando vidi uscire dai cespugli la figura di persone amiche che poco prima erano con me al “presidio”.
Intanto, quelli che poco prima avevano rischiato di essere investiti, si unirono a noi e ci spiegarono l’accaduto. Buona parte delle macchine parcheggiate sul bordo della piccola strada avevano le gomme tagliate, alcune ancora gemevano emanando la poca aria ancora rimasta.
Erano le nostre macchine: le macchine dei “Piemontesi”, degli “ecologisti”, così ci chiamavano quelli che sostenevano a spada tratta l’Acna.
Era evidente che la nostra presenza in quel posto dava fastidio a qualcuno, in primo luogo alla fabbrica e a chi da essa si lasciava ricattare.