mario bertola: diario e memorie

le memorie di mario e della sua lotta contro l' acna e per una valle bormida viva

lunedì, settembre 12, 2005

cap. 11 il meglio del presidio

IL MEGLIO DEL PRESIDIO

La nostra Langa, appena sveglia dal lungo sonno invernale, si trovava ad affrontare intere giornate di pioggia. E’ un fenomeno normale nel mese di aprile, anzi è di buon auspicio per la nuova annata, lo dicono chiaramente i vecchi e saggi proverbi contadini: «Aprile ha trenta giorni ma se piove trentuno non fa male a nessuno».
Giù, al presidio, vivevamo quelle giornate con l’umidità che ci entrava nelle ossa e il falò, che ardeva perennemente dalla sera del 20 Aprile, era di grande aiuto ma non bastava a toglierci di dosso quell’umidità e il gelo che era dentro i nostri cuori.
I nostri piedi continuavano a calpestare quelle pozzanghere d'acqua rossa e i nostri occhi erano sempre puntati verso il fiume che si gonfiava e si avvicinava sempre di più, minacciando le nostre tende.
La mia piccola, bella, cara tenda non era più sola, ma era circondata da altre, più grandi e capienti, complete di lettini e coperte. C'era pure una costruzione precaria fatta di assi e nylon, che fungeva da salone per ritrovo comunitario.
In quel salone, parecchie sere, ci riunivamo in trenta o quaranta persone a parlare, discutere sul da farsi e sentire le ultime notizie sullo sviluppo della giornata.
La gente veniva da tutta la Valle Bormida, anche da paesi dell’Alessandrino come Cassine e Borgoratto, erano donne e uomini di tutte le età, operai, impiegati, contadini……Sono nate così nuove conoscenze e tra volti nuovi, si mettevano assieme le idee e si valutavano le migliori.
Si trovava anche il momento per cantare, accompagnati da una fisarmonica e da una chitarra, le donne impastavano e cuocevano delle favolose frittelle e il profumo di fritto s'intrecciava con quello dei veleni circostanti.
C'erano le “friciule” della signora Romana, che meritano un plauso a parte per la loro fragranza e il profumo irresistibile……così le giornate finivano sempre in una festa.
Trentun giorni e trentun notti abbiamo calpestato quel greto di fiume con i suoi veleni, per trentun giorni e trentun notti abbiamo respirato quell’aria acre che ci serrava la gola.
Ne abbiamo visto di cose in quei giorni!……
Quante provocazioni, emozioni, paure!
Ma la cosa che ci faceva più rabbia non erano le provocazioni degli operai: loro, lo sapevamo, erano ricattati per difendere il sacrosanto diritto di lavorare; la cosa peggiore era il nostro senso di impotenza, la paura di marcire lì in quel buco di terra squallido senza che, chi di dovere, venisse a controllare le nostre ragioni.
Quella notte non riuscivo a rilassarmi sotto la grande tenda militare.
I canti e le voci, provenienti da intorno al falò, si facevano sempre più tenui fino al silenzio più assoluto, mentre qualcuno che dormiva sotto la mia stessa tenda incominciò a russare.
Mi alzai allora a tentoni, senza accendere la torcia elettrica per non disturbare e uscii fuori andandomi a stiracchiare vicino al fuoco.
Non pioveva più dalla sera precedente e nel cielo grigio s'era aperto uno spiraglio stellato. L’aria, però, era ancora umida e mi avvolsi bene la coperta intorno al corpo. Sopra la mia testa, sul muro di cinta, un guardiano dell’Acna, in tuta e con un casco in testa, mi stava controllando immobile.
Io rimasi indifferente intorno al falò con la speranza di assopirmi un po’, ma erano quasi le 6 del mattino e, dall’interno dell’accampamento, qualcuno si muoveva già per andare al lavoro.
Quel mattino credevo proprio di rimanere solo: della ventina di persone che avevano bivaccato al presidio quella notte eravamo rimasti in due.
Con me c'era Patrizio Fadda, un impiegato postale di Cassine (AL), un ragazzo giovane e dinamico che rimediò subito alla carenza di persone, inventandosi qualcosa per attirare l’attenzione dall’interno dello stabilimento.
Uscimmo dall’accampamento, armati di carta e penna, macchine fotografiche e rotella metrica. Iniziammo a prendere misure e scrivere sulla carta, misuravamo la distanza dal muro di cinta al fiume, poi la distanza dal fiume ai vari pozzetti d’ispezione che erano sul greto e scattammo parecchie fotografie.
Passammo a palmo a palmo il letto del fiume, evidenziando alcuni punti in cui dalla sabbia tracimava del liquido rossastro e riempimmo, usando guanti e mascherine, alcuni botticini di quel liquido.
Inizialmente non pensavamo che quella nostra costante e meticolosa ispezione, ci appassionasse così tanto, eravamo partiti quasi per gioco, dando risalto ad ogni piccolo gesto, scattando fotografie anche con il rullino finito, usando tutte le sceneggiate possibili per attirare l’attenzione del personale dell’Acna che ci stava osservando ininterrottamente.
Il nostro scopo era anche quello di farci notare....e ci riuscimmo perfettamente.
I nostri controllori, infatti, si agitavano sempre di più e incominciarono a comunicare via radio con la direzione.
Noi, indifferenti, continuavamo il nostro lavoro, che trovavamo sempre più utile e interessante.
Di tanto in tanto mi recavo allo scarico: quello buttava fuori incessantemente i suoi veleni diluiti nell’acqua, la quale cambiava tonalità di colore col passare delle ore, a volte più rossastra altre volte più marrone e a tratti schiumosa.
Era quello il punto dove moriva il nostro povero fiume.
Era quello il punto in cui il Bormida, con le sue acque ancora chiare nonostante avessero già lambito le collinette di rifiuti dell’Acna, veniva aggredito da quelle velenose dello scarico in una lotta impari e, dopo aver girato in un vortice artificiale, scendeva rosso di veleno giù per la nostra cara valle.
Era quella una scena alla quale non si poteva rimanere indifferenti: ogni volta mi allontanavo da quel luogo con un senso di vuoto nello stomaco ed una vampata di calore in faccia.
Il fischio della sirena all’interno della fabbrica ci ricordava che era giunta l’ora di pranzo.
Intorno al falò vicino alla tendopoli si era formato un gruppetto di sei persone, forse sette.
Ci conoscevamo tutti, se non per nome, almeno di vista.
Tutti si erano già incrociati qualche volta al presidio o in qualche manifestazione.
Solo uno di loro era nuovo, al presidio non si era mai visto prima e neanche alle manifestazioni. Io però lo conoscevo bene perché era un mio compaesano e infatti, appena mi vide, il suo volto si rallegrò, venne a parlarmi e si dimostrò subito più rilassato e a suo agio.
Patrizio ed io decidemmo di mangiare un panino intorno al fuoco anche se avevamo a nostra disposizione una tenda attrezzata per la cucina ed una adibita a magazzino piena di viveri.
Gli altri avevano già mangiato ed il nuovo arrivato aveva il suo cestino pieno di viveri, dal quale tirò fuori un lungo salame, di quelli che si fanno mangiare con gli occhi, ed incominciò a tagliarlo, offrendolo a tutti. E così fece anche con il buon pane fatto in casa, con la frittata, il vino e le mele renette.
Era di animo buono e generoso quel mio compaesano, un arzillo pensionato, uomo tipico della nostra Langa, semplice e cordiale. Una di quelle persone che nella vita hanno sempre messo al primo posto la famiglia e il lavoro: mi ha fatto tenerezza quando ci confidò, quasi per scusarsi, che lui non era mai venuto al presidio perché suo figlio, fino la sera precedente, lavorava all’Acna e non voleva comprometterlo.
Da quel giorno sarebbe stato libero perché suo figlio aveva cambiato lavoro e lui avrebbe finalmente potuto esprimersi, mettendo in pubblico le sue idee.
Quel momento intorno al falò continuò in un’unione di pane, di amicizia e di confidenze, proprio come pochi giorni prima quando, in quello stesso luogo, il nostro caro Don Pier Paolo spezzò il pane eucaristico per dividerlo con noi.
Era una domenica pomeriggio, un giorno memorabile.
Don Pier Paolo, incurante dei divieti dei suoi superiori, ebbe il coraggio di celebrare la Santa Messa proprio lì sul greto del fiume, sul tavolo da campeggio, davanti alla mia tenda a due passi da quel percolato velenoso.
Una folla numerosa si strinse silenziosa e raccolta intorno a quell’altare improvvisato e le parole del prete echeggiarono sulle nostre teste.
Ricordò a tutti noi che acqua e aria sono un dono di Dio e che se amiamo questi elementi amiamo noi stessi e il prossimo.
Mentre riflettevo su quelle parole mi guardavo intorno e incrociai con lo sguardo un gruppo di persone di Cengio presenti tra noi. Speravo tanto che quello fosse finalmente un momento di unione.
Il “Don” continuò con le sue parole di amore e di rispetto per la vita e per il creato. Tutta la folla era attenta e silenziosa e per un momento quel posto mi parve meno grigio.
Voglio ricordare quella domenica così, dimenticando le provocazioni e i tafferugli che anche quel giorno ci furono con i Liguri, i quali ci affrontarono per la stretta strada che conduce alla statale mentre facevamo ritorno a casa.
Voglio ricordare quel momento di unione, quella folla stretta attorno al nostro Don Pier Paolo che celebrava proprio davanti alla mia tenda e, con una punta di orgoglio, ricordo anche Manuela (mia figlia) che, un po’ emozionata, serviva la S. Messa davanti alle telecamere e ad un cordone di carabinieri.
L’unione e l’amore per la nostra valle è stata la nostra carta vincente sempre, ma di quel periodo di presidio ci sono stati momenti davvero toccanti.
Ricordo con piacere il 25 aprile, festa della Liberazione: già dal mattino e per tutta la giornata, fu un susseguirsi di persone che scendevano giù al fiume, silenziose e composte, rendevano omaggio a quel luogo osservando e documentandosi, facevano ancora una visita allo scarico e poi ripartivano verso i loro rispettivi paesi.
Quel giorno Don Toso, parroco di Castino, con l’aiuto di una chitarra e di una fisarmonica, compose nuovi brani inneggianti la Resistenza e la Liberazione, ricordando così la festa del 25 aprile, ma soprattutto la nostra resistenza alla lotta contro l’Acna.
Anche quel giorno terminò in festa nella tenda comunitaria, con canti ed inni gloriosi.
Questi sono alcuni momenti, semplici ma molto intensi, che voglio ricordare di quei giorni.
L’odio e le provocazioni sono cose sterili, l’unione e l’amore invece sono quelli che ci danno la vita.