mario bertola: diario e memorie

le memorie di mario e della sua lotta contro l' acna e per una valle bormida viva

giovedì, settembre 22, 2005

cap. 1 una voce dalla strada

Mi chiamo MARIO BERTOLA e sono un semplice abitante della valle BORMIDA.
Sono nato e vissuto in un piccolo paese distante appena 18 Km dall'ACNA di Cengio.
I ricordi della mia infanzia incominciano dai primi anni del dopo guerra. La mia era una famiglia di contadini, la mia casa situata sopra un altipiano a metà collina, davanti ad essa una grande aia in cui giocavo con i miei due fratelli più grandi tra galline, tacchini e conigli. In un angolo un grosso albero di pero, alto, superbo, maestoso.
Quella pianta mi ritorna in mente ogni volta che penso alla mia infanzia e per me era una compagna di giochi: era come un amico con cui confidarmi nei momenti di sconforto, quando tutti sembravano avercela con me. Mi rifugiavo sotto i suoi rami a riflettere e parlavo astrattamente con lei.
Poco più in fondo al cortile c'era la stalla, con una coppia di buoi da lavoro che il nonno curava come fossero persone umane.
Vicino alla stalla c'era anche un ovile con cinque pecore e sovente toccava a me portarle al pascolo. Dal fondo del cortile incominciavano i terrazzamenti con i filari di vite, alternati da piante di gelso.
Il panorama che si poteva osservare era meraviglioso: Gorzegno,il mio paese, era raggruppato giù a valle. Poche case dai tetti in pietra e la chiesa, al centro di queste, si distingueva col suo alto campanile.
Il Bormida, con le sue acque marrone scuro, che girava attorno al paese.
In famiglia eravamo in tutto sette persone: io, due fratelli maggiori (Giovanni e Giuseppe), i miei genitori (Marcellina e Luigi), il nonno materno (Luigi) e una vecchia zia che tutti chiamavamo madrina.
Il capo famiglia era il nonno, da tutti chiamato Vigiotu.
Era lui che prendeva le decisioni sulle cose da fare per gestire l'azienda agricola.
Lo faceva, però, in modo democratico consigliandosi e discutendone con mio padre e mia madre.
Le decisioni più importanti si prendevano alla sera, mangiando cena o stando a vegliare.
Era in quei momenti che si programmava il lavoro da farsi all'indomani e si parlava dei problemi passati e presenti.
Il discorso cadeva spesso sui tristi ricordi della guerra e sempre più sovente si parlava di quella fabbrica maledetta “la Montecatini" e sulle conseguenze che essa causava alla nostra valle.
Particolarmente, ricordo bene una sera che venne un vicino di casa a trovarci: mio padre, come sempre in quelle occasioni, arrivò dalla cantina con una bottiglia di vino nero con attorno al collo un filo di lana colorata che probabilmente stava ad indicare l'annata o la qualità. Tolto il tappo ne versò un dito nel bicchiere e dopo averlo annusato lo assaggiò a piccoli sorsi. Vidi subito mio padre trasformarsi: da tranquillo e allegro, come solitamente era, diventò nervoso, incominciò a mugugnare e rivolgendosi a mio nonno disse con voce dura ma pacata: «basta ... a cominciare da quest'autunno togliamo tutte le viti, non possiamo continuare a lavorare tanto per poi buttare via tutto. Questo non è vino questo è acido fenico!».
Per un lungo attimo tutti stettero zitti, nessuno osò fiatare.
Mia madre, alle prese con i piatti (in un lavello scavato da una pietra), si girò a guardare, la vecchia zia che sonnecchiava appoggiata allo schienale di una sedia alzò la testa, mancavano solo i miei fratelli, usciti ad attingere un secchio d'acqua dalla cisterna.
Il nostro vicino di casa stava per dire la sua, ma il nonno prese la parola e con voce pacata ma grave disse rivolto a mio padre: «le viti non si toccano non è quello il modo di risolvere il problema. Dobbiamo unirci tutti assieme con gli altri paesi e protestare, siamo usciti dalla guerra e adesso non sarà la Montecatini a mandarci in malora! non dobbiamo permetterglielo».
Per quella sera non si parlò d'altro.
Pure mia madre era preoccupata perché quando faceva “lescia" non poteva più andare a risciacquare la biancheria nel Bormida.
“Lescia" (per chi non lo sa) era un modo di lavare la biancheria quando ancora non esistevano i detersivi e in casa non si aveva ancora l'acqua dai rubinetti.
Si accumulava la biancheria, la si metteva dentro dei tini di legno e si ricopriva con della cenere, quindi si aggiungeva acqua che filtrava e usciva di sotto.
Il procedimento durava qualche giorno, dopo di che la biancheria si tirava fuori e si andava a risciacquare al fiume, nell'acqua corrente.
Io aspettavo sempre con gioia il momento in cui si faceva lescia, per poter andare col carro tirato dai buoi al fiume e lì, mentre mia madre risciacquava la biancheria, andare a giocare lungo il Bormida con i miei fratelli.
Pensandoci mi sembra di sentirlo ancora adesso quell’odore che mi penetrava nel naso e pizzicava la gola.
Quell'acqua rossa colore del vino per me era normale, l'avevo sempre vista così e non riuscivo ad immaginarla diversamente.
Quell'odore di medicina lo confondevo con l'odore dello sciroppo che il dott. Torcello mi faceva prendere per curarmi la tosse.
Nei giorni che venivano, si parlò sempre più sovente del fiume e della fabbrica.
In paese si tennero riunioni alle quali partecipavano anche le donne, con appresso i bambini.
Io non ho mai partecipato a quelle riunioni ma ero sempre informato di tutto, so che si parlava di una manifestazione: allora la chiamavano sciopero.
Ricordo che si parlava di un certo onorevole Giulitti, ma mio padre e mio nonno non credevano in quelle persone, dicevano (per esperienza) che si sarebbero fatti vedere solo quando c'erano le votazioni per prendere un po’ di voti poi si sarebbero dimenticati di noi.
I comizi in piazza me li ricordo bene!
Quando alla domenica mattina dopo la S. messa “granda”, un signore distinto nel vestire saliva su di un palco improvvisato e lì si metteva a urlare a squarciagola contro la fabbrica di Cengio, contro il Bormida che puzzava di fenolo, e lì.....giù a fare promesse!
Alla fine la gente batteva le mani e quando il signore ben vestito scendeva dal palco, incominciava a stringere mani a destra e a sinistra.
Alla domenica la nostra famiglia si trasformava, non si parlava più di lavoro: al mattino mi svegliavo e sentivo un buon odore di brodo provenire dalla cucina dove stava bollendo una gallina.
Papà “VIGI” (Luigi) stava già suonando il clarino, la sua grande passione; il nonno già arrivato dalla prima messa, con la sua camicia di tela bianca con sopra il panciotto nero, seduto sullo scalino di pietra davanti all'uscio di casa leggeva senza occhiali la "GAZZETTA D'ALBA".
La prima ad essere consultata era la pagina dove c'erano i mercati con i prezzi dei vari prodotti agricoli, poi cercava l'articolo sulla "Montecatini" e lì incominciava a sbuffare.
Quasi tutte le settimane c'era un articolo sulla valle Bormida, ma se una volta il giornalista sembrava dare ragione ai contadini, evidenziando i danni provocati ai pozzi e ai prodotti agricoli, la volta dopo minimizzava tutto e sembrava condannarne le proteste in programma.
Questi cambiamenti d’opinione mandavano in furia mio nonno e i miei compaesani che sempre più spesso parlavano di sciopero con carri tirati da buoi.
Tutto ormai era quasi pronto, anche la data era stabilita.
Il nonno e mio padre ci spiegavano il programma.
Saremmo andati tutti, a casa nostra dovevano restare solo le donne.
Avremmo attaccato il carro più lungo, con sopra un lenzuolo di fieno per dare da mangiare ai buoi durante la sosta sulla strada.
Prima di partire avremmo dovuto abbeverare i buoi e pulirli con la "stria" e la "panadura".
Il nonno spiegò a me e ai miei fratelli che sarebbe stato diverso dall'andare ad una fiera, che non ci sarebbe stato il carretto dei gelati o l'osteria col profumo di trippa.
Noi saremmo dovuti stare a turno davanti ai buoi e non allontanarci troppo dal carro. L'unica persona in famiglia non del tutto convinta era mia madre, più che altro penso fosse preoccupata perché tra gli organizzatori di quella protesta c'era un certo on. Giulitti, che era del partito comunista.
Mia madre non vedeva di buon occhio i comunisti, lei era più vicina alla Democrazia cristiana e proprio la D.C era contro il movimento e chiamava comunisti tutti quelli che erano a favore dello sciopero.
Non ricordo la data ma mi sembra fosse un sabato dei mese di APRILE: il grande giorno era arrivato.
L'appuntamento era per l’una del pomeriggio giù sullo stradone in fraz. Moglie.
Già a mezzogiorno, per le strade di campagna che portavano al paese, si sentiva un gran vociare e il rumore dei carri che scendevano a valle.
Era giunta l'ora anche per noi di attaccare i buoi al carro e partire.
Mio padre mise sul carro oltre al fieno anche due coperte di stoffa a quadretti, unte e malandate: servivano a coprire i buoi in caso di pioggia e per ripararli quando erano sudati. La salute degli animali era importante quanto quella dei cristiani....
Verso le tre del pomeriggio, il tratto di strada lungo circa 3 km che separa la borgata Gisuole dalla fraz. Costa di Gorzegno era tutta piena di buoi coi carri e di tanta gente a piedi, alcuni anche in bicicletta.
Vecchi, uomini, donne e bambini. C'era anche un signore anziano con un caprone legato ad una corda che portava in giro tra i carri: il caprone emanava una puzza terribile e al suo passare la gente rideva e lanciava battute scherzose.
Tutto era tranquillo e aveva l'aspetto di una grande festa.
I bambini a gruppi improvvisavano giochi, le donne si raccontavano problemi e pettegolezzi, non mancavano alcune coppiette che cercavano di distogliersi dallo sguardo dei manifestanti.
C'era poi un giovane sui 20 anni con una moto, che per farsi notare dalla gente si mise a scorazzare avanti e indietro per una strada sterrata vicino allo stradone, finché ad un certo punto cascò per terra fra le risate di tutti.
Ad un certo punto arrivò la corriera, dovette fermarsi, ed io, ebbi così modo di vederla finalmente da vicino.
Fino a quel giorno la vedevo sempre da casa mia passare per lo stradone: blu, col muso lungo, sulla capotta c'era una ringhiera con il posto per le valige e sul retro una scaletta per salirci sopra.
Sembrava una diligenza che si vedono nei film western.
Non ricordo se riuscì a passare o se si fermò lì fino a notte.
Ricordo che sul tardo pomeriggio la gente incominciò ad agitarsi e si ammassò presso una macchina che arrivava da Cengio: pare fosse un dirigente della Montecatini oppure uno mandato appositamente a provocare.
Volò qualche parolona e qualche imprecazione ma alla fine tutto fini per il meglio.
Io dovetti restare quasi sempre vicino ai buoi, così non riuscii a seguire i vari comizi improvvisati.
Ricordo di aver visto tanti carabinieri e gente forestiera, ben vestita, che girava tra la gente e faceva domande.
Penso fossero giornalisti o curiosi venuti da fuori.
Il pomeriggio era passato velocemente e si stava facendo buio, ma la strada era ancora piena di carri e buoi, ed era ormai notte quando, a poco a poco, la strada si liberò.
La gente tornò a casa stanca, arrabbiata, con qualche speranza in più, ma senza farsi troppe illusioni.
La sera, da noi, non si parlò d'altro che di quella giornata: mio padre e mio nonno, che conoscevano quasi tutti, facevano la conta delle persone che avevano partecipato e facevano nomi di persone venute da Levice, da Torre Bormida e persino da Cortemilia.
Purtroppo, ben presto, arrivò un altro elenco in paese con 54 nomi e cognomi di persone di Gorzegno e Levice: i contadini e alcuni politici dovevano essere processati per la sola colpa di essersi battuti in difesa dei loro diritti e della loro terra.
Non hanno usato violenza, non hanno usato modi illegali, volevano semplicemente far sentire la loro voce a chi di proposito non voleva sentirla.
Non so con quale criterio scelsero quei 54 nomi fra la marea di gente presente in strada quel famoso giorno.
C'é chi dice abbiano preso uno per famiglia.
Io so per certo che nella mia famiglia gli imputati erano due: Troia Luigi, classe 1883, e Bertola Luigi, classe 1912, rispettivamente mio nonno e mio padre.
Questo fatto scosse non poco la tranquillità della famiglia.
Il dover affrontare un processo non era cosa da poco e il fatto che fosse tutto il paese coinvolto non tranquillizzava più di tanto i miei vecchi.
Durante l'attesa del processo si parlò anche di amnistia (parola di cui, a quei tempi, non conoscevo il significato), ma questo servì solo ad aprire le porte delle carceri a varie categorie di delinquenti.
Ma a quei 54 poveretti il processo si doveva fare e col processo arrivò anche la condanna.
Il giorno del processo, per noi che restammo a casa, fu un giorno di grande attesa e agitazione: mia madre girava avanti e indietro e non riusciva a combinare niente di buono, il tempo sembrava non passare più.
Tornarono a casa condannati ma a testa alta e si leggeva nei loro volti non rabbia ma addirittura serenità.
Fu mio padre il primo a parlare, a spiegarci che per lui non contava la condanna, ma contava la sua coscienza, e lui la coscienza ce l'aveva pulita perchè la causa per cui si era battuto era giusta: si diceva pronto a rifarlo.
Nessuno in casa aprì bocca a quelle parole.
Anch'io rimasi in silenzio e incominciai a riflettere.
Pensai all'ingiustizia che dovevano subire quelle persone condannate, pensai alla fabbrica che continuava a mandarci giù veleni e al suo potere di far tacere interi paesi.
Pensai a quegli operai che quando scendevano dal pulman che li riportava dal lavoro, avevano un volto giallastro e puzzavano di medicina.
Pensai ancora a mia madre che non poteva più andare al fiume a risciacquare il bucato.
Tutti questi pensieri me li portai dietro anche durante la notte e nei giorni che seguirono e fecero nascere in me una sensazione nuova che non sapevo descrivere, non so se paura, odio o voglia di vendetta.
Forse era tutto quello assieme.
Al tempo del processo avevo tredici anni e sentivo forte la voglia di evadere, di cambiare vita e di ribellarmi a quella triste situazione.
Incominciai a fare domande su quella fabbrica, prima ai miei fratelli, poi a mio padre e mio nonno. Ne parlai con gente di fuori dalla famiglia, tutti erano consapevoli della gravità del problema, tutti si preocupavano per il danno che quella fabbrica arrecava ai prodotti della nostra terra.
Quei poveri contadini, miei compaesani, dopo quell’ultima esperienza, sembravano rassegnati. Continuavano a lavorare sodo la propia terra, estirpando le vigne lasciando solo il necessario per il consumo famigliare.
Ricordo con tristezza quei lunghi filari di viti, su quei lunghi muri di pietra a secco che giravano seguendo il crinale delle colline. Ognuno aveva il propio nome; “la firagnà dla .salvia,....er firàgn di vutei......er firagniun......”.
Nel giro di pochi anni le piante di vite sono state estirpate lasciando sole le piante di gelso che servivano per l’allevamento dei bachi da seta.
La mia famiglia, per l’insistenza di mio nonno, è stata una delle ultime a rassegnarsi ma alla fine la nostra uva non la comprava più nessuno e il vino, l’estate sucessiva alla sua fermentazione, scorreva giù nel prato adiacente alla cantina, inebriando la terra e facendo rabbrividire tutti noi della famiglia.
A lunghi periodi di silenzio e di rassegnazione, si alternavano periodi in cui il caso riesplodeva con tutta la sua drammacità.
Ogni tanto saltava fuori in valle qualcuno che veniva a parlare nelle piazza o nei saloni parocchiali.
Persone decise che sembravano pronte a tutto, anche a sacrificarsi per la “causa”.
Incominciavano ad imprecare contro la Montecatini (ACNA) e battevano i pugni sul tavolo. La gente ascoltava attenta e nelle mie viscere si sprigionava la voglia di vendetta. Ogni volta dicevo a me stesso che forse sarebbe stata la volta buona, ma purtroppo quell’illusione durava solo quanto un fuoco di paglia e quei personaggi finivano come una bolla di sapone.
Imparai così a non credere più al primo arrivato, e a non giudicare la capacità e la sincerità delle persona dal tono della voce.
Davo invece sempre di più fiducia a quei 54 miei compaesani che erano stati condannati per il solo fatto di aver urlato i loro diritti dal bordo di una strada, e apprezzavo sempre di più le parole di mio padre: «mi sono battuto per una giusta causa, sarei pronto a rifarlo».